Diego Tosarini faceva paura. A 13 anni era già alto. Oltre 190 centimetri. Era già grosso. Una specie di armadio quattro stagioni. Abiti inclusi. Ma, di più, aveva il fisico già “apparecchiato” di tutto punto: barba folta, muscoli in invidiabile abbondanza e già ben modellati e sguardo truce. Tutta “roba” che, sul parquet, non prometteva niente di buono. Insomma, in confronto a noi che eravamo bambini, per giunta un po’ timidi, con facce glabre e in possesso di fisici abbondantemente sfigati, Tosarini era già un uomo fatto e finito.
Diego, a metà degli anni ’70, era la stella indiscussa del mitologico gruppo dei nati nel 1962 della Pallacanestro Varese. La punta di diamante di una formazione entrata nella storia del basket varesino dalla parte giusta del libro perché capace di conquistare il secondo scudetto giovanile della società della famiglia Borghi. E Diego in quella squadra di alto profilo nella pallacanestro, sembrava fosse il predestinato. Quello che “confezionato” da madre natura – 198 per 95 chili -, sembrava fosse destinato ad una carriera importantissima a livello professionistico. Poi, gli avvenimenti della vita hanno mosso in maniera diversa le pedine sullo scacchiere di Tosarini il quale è comunque titolare di una storia sportiva, e personale, davvero intensa e interessante

“Sono nato a Varedo e – ricorda Tosarini -, fino agli 11-12 anni, non sapevo nemmeno cosa fosse la pallacanestro. Però, ero già alto, alto e il signor Pertusini – proprietario e sponsor della squadra di Varedo che allora militava tra serie C e B -, era molto amico di mio padre e insisteva perché almeno provassi a prendere fra le mani il pallone da basket. Alla fine, per far contenti entrambi, un bel giorno capito in palestra e inizio il mio percorso con la palla a spicchi. In realtà con Varedo l’avventura cestistica dura poco. Giusto il tempo per fare un paio di mesi di allenamento e per disputare un torneo al quale partecipano le migliori squadre giovanili della Lombardia: Varese, Cantù e le due formazioni di Milano. Anche se tecnicamente appartengo alla categoria “incapaci”, agli allenatori e dirigenti presenti non sfugge che sono già il più alto di tutti. Così, nei giorni successivi casa mia diventa una sorta di centralino perché il telefono squilla a ritmo continuo e dall’altra parte del filo ci sono i general manager di tante società che chiedono ai miei genitori il consenso a farmi effettuare un “provino”. Al termine di un paio di settimane abbastanza agitate i miei famigliari mi lasciano totale libertà di scelta ed io a quel punto vado diretto sull’Ignis Varese, ma solo perché in quella squadra c’è il famosissimo Dino Meneghin, l’unico giocatore di pallacanestro che conosco. Inutile aggiungere che dopo quella scelta la mia vita cambierà in modo totale. Direi di 720 gradi. Un doppio, anzi triplo salto mortale”.

Spiega meglio.
“In pratica, per effetto di questa scelta, la pallacanestro da elemento quasi sconosciuto diventerà, per parecchi anni, la sola ragione di una vita scandita da appuntamenti fissi. Il mattino a scuola, il pomeriggio il viaggio da Varedo a Varese per gli allenamenti, cinque-sei volte la settimana. A Varese il primo anno trovo Bruno Brumana, bella persona e ottimo insegnante di fondamentali. Armato di grande pazienza, Brunetto-Geppetto da quel legno grezzo giorno dopo giorno sarà così abile da tirar fuori un giocatore decente da consegnare nelle mani di coach Carlo Colombo, l’allenatore a cui devo tutto in termini tecnici, ma soprattutto umani. Carlo, anche se ai tempi era poco più che un ragazzo – credo avesse circa 25 anni -, è stato per me, ma credo per tutti noi, il classico fratello maggiore-zio-giovane padre che con buon senso, intelligenza, carattere, disponibilità e grande empatia ci ha insegnato non solo la pallacanestro, ma anche a stare al mondo. Da lui ho imparato tanto, quasi tutto: le regole del campo, quelle dello spogliatoio e quelle della vita. Ho capito il valore del sacrificio, dell’impegno, della sportività e del rispetto per gli allenatori, i compagni e gli avversari”.

Dall’oratorio di Varedo alla Finale di Coppa Campioni di Grenoble nell’aprile 1979: un viaggio che nemmeno da qui a Saturno…
“In effetti, ripensandoci, devo confermare che si è trattato di un cammino incredibile, sul quale, in tutta onestà, ai tempi non avrei scommesso una lira. Invece, giorno dopo giorno la pallacanestro si trasforma in una passione vera, trascinante, totalizzante. Un “delirio” rinforzato anche dai progressi individuali e dai risultati di una squadra, il gruppo 1962, che cresce, migliora e forte dell’esperienza maturata nel doppio campionato – alcuni di noi giocavano stabilmente anche con i ’61 -, e segnata da qualche cocente, ma indispensabile delusione, diventa una delle migliori formazioni italiane. Per quel che mi riguarda, grazie al fisico che mi aiuta e non poco, disputo due o addirittura tre campionati all’anno giocando nelle categorie Allievi, Cadetti e Juniores. Però, bisogna dirlo, mi faccio un cu…ore grossi così perché viaggio al ritmo di due allenamenti al giorno e, credimi, le sedute di coach Colombo o coach Brumana non sono passeggiate sul lungomare”.

Sul lungomare, quello di Pescara, avete trascorso una notte bellissima, o sbaglio?
“Corretto: a Pescara, nel corso di cinque giorni deliziosi e fantastici conquistiamo lo scudetto Allievi battendo in finale la GBG Lazio. Un tricolore che, obbiettivamente, porta soprattutto  il nome dei miei compagni perché io, che mi ero sfracellato il ginocchio cadendo dal motorino e in quelle finali ero ancora malconcio, gioco lo stretto indispensabile. Quindi, grandissimi meriti vanno riconosciuti a Massimo Collitorti, Claudio Milanese, Flavione Gadda, Mauro Buzzi Reschini, Ricky Caneva, Gian Luca Zanzi, Luca Montoli, Carlo Sacchi, Caludio Carcano e Paolo Vaccari. Grazie a loro perché la gioia di essere arrivati fino in fondo, aver alzato il trofeo che incorona i vincitori e l’idea di aver compiuto qualcosa di importante, appartiene e resta nel ricordo e nella memoria di tutti i partecipanti a quella splendida avventura. Perché noi eravamo davvero una squadra, brava a dare il meglio di sé giocando sempre insieme e aiutandoci l’un l’altro in attacco come in difesa”.

Negli anni successivi fai l’abbonamento ai “viaggi per la finali nazionali”.
“In quegli periodi tra Allievi, Cadetti e Juniores ho disputato diverse finali nazionali giocando sempre anche con ragazzi più vecchi di me, senza però riuscire a conquistare un altro scudetto, a conferma che arrivare in vetta era davvero un’impresa. Però, mi sono divertito come non mai e gli anni delle giovanili per la loro spensieratezza e genuinità restano a mio avviso i migliori nella vita di qualsiasi giocatore. Io già a sedici anni, grazie a Brumana e Colombo che si alternavano come vice-allenatori in serie A frequento da aggregato la prima squadra, ovvero la grande MobilGirgi-Emerson di quegli anni. Ho la fortuna e il privilegio di aver conosciuto e apprezzato i più grandi campioni della nostra pallacanestro. Uomini di grandissimo valore cestistico e umano ma, poche storie, la pallacanestro quello che arriva dopo, quella del livello seniores, è bella, gratificante, ma non così piena di emozioni”. 

Tra le emozioni da raccontare c’è anche la tua avventura con Nazionale Cadetta.
“La maglia azzurra, a qualsiasi età la indossi, rappresenta qualcosa di indescrivibile. Puoi immaginarti cosa significasse per me far parte di un gruppo da quale cono usciti diversi giocatori di serie A, prima fra tutti Antonello Riva, o il mio compagno Rico Caneva. L’esperienza dei campionati europei disputati a Damasco in Siria nel 1979 – secondo posto conclusivo perdendo la finalissima contro la Jugoslavia -, è assolutamente indimenticabile e, per dire, i miei 21 punti segnati in semifinale alla Spagna e i 19 alla grande Jugoslavia sono ancora lì, negli annali>”.  

Bellissime quindi le giovanili, ma di Tosarini nelle categorie seniores non c’è quasi traccia: come mai?
“Il mio rapporto con Pallacanestro Varese si interrompe perché nel mio ultimo anno, quello targato Emerson, entro in rotta di collisione con coach Rusconi. Usando un eufemismo, posso dire che non ci “nasavamo” granchè. Così, l’anno dopo, il general manager Gian Carlo Gualco, ottima persona e grande intenditore di basket, mi propone di andare all’Omega Bilance Busto Arsizio in serie B per farmi le cosiddette ossa. L’anno a Busto corre via in modo molto divertente in un ambiente molto godereccio, più adatto al film “Animal House” che ad una squadra di basket. Non a caso quella formazione che, sulla carta, sembra destinata ad una facile promozione in A2 evita la retrocessione solo nelle ultime giornate. Risultato ovvio ripensando alle grandi risate e al molto rilassato degli allenamenti. In sintesi potrei dire che di pallacanestro seria e concentrata nell’anno trascorso a Busto se n’è vista e giocata poca. A quel punto mio padre, persona molto pragmatica, mi pone davanti ad un scelta cruciale, decisiva: o la pallacanestro, ma fatta davvero bene e da professionista, o l’ingresso nell’azienda a pieno titolo nell’azienda di famiglia. E siccome, anche se per motivi diversi, le due precedenti esperienze senior mi avevano segnato, ho preferito mollare il basket e iniziare a lavorare seriamente. In definitiva diciamo che dopo l’anno trascorso a Busto per me è suonata, a 1000 decibel, la campanella di fine ricreazione”.

Quindi, da allora, basta pallacanestro nella tua vita?
“Direi basta pallacanestro vissuta con un taglio professionistico. In realtà, tra un impegno di lavoro e l’altro, ho giocato fino a 38 anni con gli amici dell’Ebro Milano, navigando tra Promozione, serie D e C2 all’insegna di un purissimo divertimento condiviso con compagni di squadra meravigliosi e con un atteggiamento verso il basket doverosamente più distaccato”.   

Ti sei mai pentito di quella scelta? In fondo Tosarini sembrava un nome destinato a riempire le pagine dei giornali.
“La domanda è spinosa e dare una risposta è sempre difficile. E complicato anche perchè da allora sono passati ormai quarant’anni. Tuttavia, posso affermare che la scelta è stata serena e molto ponderata e i miei genitori non hanno mai forzato alcuna la situazione e mio papà lavorò solo per il mio bene e per quello della famiglia. La verità è in quel periodo, dopo sei anni vissuti a pieno ritmo – due-tre allenamenti al giorno, due-tre campionati giocati da protagonista, raduni, tornei e competizioni con le nazionali giovanili, impegni e richieste sempre più pressanti con la serie A -, la pallacanestro mi usciva anche dagli occhi e forse sentivo il bisogno inconscio di staccare la spina. Più prosaicamente potrei aggiungere che se sulla strada verso il professionismo avessi trovato una persona di buon senso come Carlo Colombo le cose sarebbero andate in maniera diversa. Però, a conti fatti, nessun pentimento perchè ho fatto le cose che servivano in quel momento e le “sliding doors” non sempre funzionano bene come quelle che vedi al cinema. Quindi, con l’animo in pace dico: giusto così. Anche se – osserva ironicamente Diego -, quando penso che Antonello Riva in nazionale cadetti era il mio cambio e giocava pure pochino, mi viene da ridere”. 

Lavoro? Famiglia?
“Mmmm, che casino! Sicuro che vuoi toccare questi argomenti? Guarda che servirebbe un altro volume. Comunque, in termini molto sintetici per quanto riguarda il lavoro ti dico che oltre all’azienda di famiglia mi sono occupato di barche, grosse barche con un’attività di “charter”. Poi, da appassionato autodidatta sono diventato un cuoco importante in un ristorante stellato negli USA, a St. Petersburg, Florida, città in cui ho conosciuto la mia attuale compagna e insieme abbiamo una bella casa con vista sull’Oceano. Poi, per ragioni famigliari sono rientrato in Italia e continuo a seguire l’azienda di famiglia che nel frattempo ha diversificato il suo campo d’azione ed ora mi occupo di revisioni di auto a livello industriale e, hobby accessorio, di restauro di pregiate macchina d’epoca. Infine, la famiglia: tre grandi amori, una moglie, due compagne. Tre donne importanti dalle quali ho avute due figlie: Francesca 30 anni e Martina di 14. Insomma: un bel “movimento” mi pare…”.

E il basket?
“Qualche partitella ogni tanto con i soliti amici di Ebro Milano e, adesso che ci siamo rivisti, tante chiacchiere e alcuni bei momenti con i ragazzi del ’62 della MobilGirgi Varese. Loro sono stati più che amici. Sono stati, passami la similitudine, compagni di guerra, vicini di trincea. Ragazzi che saranno nel mio cuore per sempre”.   

Massimo Turconi

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