
Un uomo tutto d’un pezzo, un giocatore sempre corretto, sia dentro che fuori dal campo. Possiamo descrivere così Alessandro Frara, bandiera del Frosinone ma allo stesso tempo ragazzo amato e rispettato da tutti. Una carriera tra alti e bassi, a causa di situazioni societarie non sempre chiare, in cui ha vissuto sì, il sogno Champions con la Juve, ma anche l’incubo del fallimento, prima con lo Spezia e poi con il Rimini.
In tutto questo, per lui, anche un’esperienza a Varese, dove è rimasto solo un anno ma ha saputo ritagliarsi, in ogni caso, uno spazio importante all’interno di una squadra decisamente ben organizzata, reduce dalla promozione in Serie B del 2010 che aveva riportato i biancorossi in cadetteria dopo ben 25 anni di attesa. Voluto fortemente da mister Sannino, tanti i ricordi che porta nel cuore Frara della sua esperienza lombarda a partire dalla città, che ha saputo accoglierlo sin da subito nel migliore dei modi e con cui ha condiviso il dolore, sincero, di non essere riuscito a coronare il sogno chiamato Serie A.
Hai mosso i primi passi da calciatore nel Pozzo Strada, la squadra del tuo quartiere, a cui sei rimasto particolarmente legato. Eri poco più di un bambino, come riuscivi a gestire tutti i tuoi impegni e coltivare, allo stesso tempo, la tua più grande passione?
“Mio padre è stato un calciatore professionista per tanti anni, è stato lui a trasmettermi la passione per questo sport. Da piccolo giocavo un po’ ovunque, dai giardinetti del mio quartiere fino all’androne di casa. All’età di 7 anni, poi, ho manifestato la volontà di andare a giocare in una squadra. Credo sia il sogno di tutti i bambini”.
Ad un certo punto, infatti, sei stato preso dalla Juventus. Come è andata?
“Mio padre era del Toro, non è stato facile (ride, ndr). No, scherzi a parte, è stata tutta una questione di organizzazione. Dovevo riuscire a conciliare i miei impegni con la scuola e per una semplice questione di orari sono andato alla Juve. Diciamo che mi aveva cercato anche il Torino, ma io alle elementari facevo il tempo pieno e i granata si allenavano alle 3 del pomeriggio. La Juventus, invece, iniziava le attività alle 17-17.30 e non ho potuto fare altrimenti”.

Dopo tanti anni nelle giovanili dei bianconeri, nella stagione 2001-2002 iniziano ad arrivare anche le prime convocazioni con la prima squadra. Quell’anno in panchina c’era Marcello Lippi, che personaggio era nello spogliatoio? E, soprattutto, vi siete detti qualcosa in particolare le prime volte che vi siete incontrati?
“Marcello è una persona davvero carismatica. Sono passati tanti anni, ma ricordo che aveva una grande personalità, tanto che anche i giocatori più affermati e “forti” caratterialmente lo seguivano alla lettera. Possiamo dire che sapeva sempre far valere la propria supremazia e il proprio modo di essere, era quella la sua caratteristica migliore. Con me, poi, parlava molto, ma in generale con noi ragazzi riusciva ad essere anche particolarmente sensibile”.
C’è qualcosa su cui Lippi ti ha fatto maturare particolarmente?
“Dopo gli allenamenti con la prima squadra, mi faceva sempre fermare un po’ per lavorare sulla tecnica, sui cross e in generale su tutto quello che deve saper fare un centrocampista. Quindi sì, mi ha insegnato molto, e diciamo che già allora aveva metodi molto moderni. È un grande allenatore, e se sono tanti anni che è lontano dall’Italia, credo sia solo per una sua scelta. Dopo aver vinto tutto, vorrà godersi quello che ha ottenuto facendo cose che lo stressano di meno e lo fanno divertire di più”.
Nella stessa stagione esordisci anche in Champions League. Giochi solo 9 minuti, ma credo che per un ragazzo così giovane scendere in campo a Glasgow, nella più prestigiosa delle competizioni europee, sia comunque una sensazione irripetibile.
“Assolutamente sì, è stata una delle pagine più belle della mia storia calcistica. Fino a quell’età non avevo mai giocato in uno stadio così caldo, è stato davvero un sogno che diventava realtà. Ricordo che anche il contesto era fantastico e io ero riuscito ad entrare con una certa personalità. Il punto, però, è che quando si fanno questo tipo di esperienze, non bisogna montarsi la testa e avere aspettative troppo alte. E io, in questo senso, qualche problemino l’ho avuto”.

Hai parlato di aspettative. Hai esordito in Champions, ma con i bianconeri non hai giocato nemmeno un minuto in Serie A. Non ti aspettavi di scendere in campo almeno una volta? Banalmente, non puoi nemmeno vantarti di aver vinto il titolo di quell’anno.
“Ovviamente me lo auguravo, ma non era quello l’importante. Certo che quando sono stato convocato speravo di poter scendere in campo, ma già essere in una realtà come quella era un privilegio. L’esordio in massima serie, in ogni caso, l’ho fatto l’anno dopo con il Bologna”.
E a Bologna sei riuscito a ritagliarti uno spazio importante scendendo in campo 21 volte tra coppa e campionato e facendo sempre piuttosto bene. Perché l’anno dopo sei sceso di categoria? Ti sei trasferito alla Ternana ma, visto il tuo trascorso, non potevi ambire ad una squadra anche di bassa Serie A?
“Certo, la mia speranza era proprio quella, ma con tutta onestà ti dico che richieste dalla massima serie non ce ne sono state. Pur avendo fatto bene a Bologna, nonostante l’infortunio, non è stato possibile rimanere in A e sono dovuto andare a Terni, dove ho intrapreso un percorso diverso. All’inizio ho faticato molto, sempre per quel discorso delle aspettative troppo alte che ti dicevo e nei primi tempi non sono riuscito a calarmi al meglio nella nuova realtà. Non avevo la testa giusta per farlo, ma alla fine la Serie B è stato il campionato in cui ho trascorso la maggior parte della mia carriera”.
Però, per uno strano intreccio del destino, sarà proprio a Terni che, qualche anno più tardi, segnerai una delle reti più importanti della tua carriera. E’ il 28 aprile 2015, il Frosinone batte la Ternana 1-0 grazie al gol di Frara e si avvicina in maniera importante alla prima storica promozione in Serie A.
“Quello è un bel ricordo che ho di Terni, come anche il calore della tifoseria. La loro è una piazza molto esigente ma che, allo stesso tempo, sa darti anche tanto. Per quanto riguarda il gol diciamoci la verità, avrei preferito farlo ad un’altra squadra e in un altro stadio, però la vita sa essere beffarda e spesso ti ritrovi in queste situazioni. Quella vittoria fu comunque importantissima, dato che ci permise di salire al secondo posto e di iniziare a credere davvero alla promozione diretta, soprattutto dopo aver battuto il Bologna nella gara successiva”.

A gennaio del 2008 ti trasferisci a Rimini, ma in Romagna ti procuri un brutto infortunio che ti terrà a lungo lontano dal campo. Come ti sei sentito? Anche a livello psicologico, non avevi paura di non riuscire a tornare subito a certi livelli e di interrompere il bel percorso che stavi facendo?
“A dir la verità mi ero già fatto male a dicembre quando giocavo a La Spezia, ero nel momento migliore della mia carriera e prima dell’infortunio mi sentivo davvero in forma fisicamente. In quel momento hanno valutato di farmi stare fermo solo un mese, dato che dalla risonanza non si vedeva niente di particolare e non si capiva bene cosa avessi. A gennaio sono stato venduto al Rimini, dato che lo Spezia stava fallendo, ma ogni volta che in allenamento provavo a far forza sulla caviglia, sentivo dolore e non riuscivo ad esercitarmi a dovere. Dopo una serie di indagini, il chirurgo ha scoperto che c’erano dei frammenti ossei che mi davano fastidio alla cartilagine, così mi sono dovuto operare, ma ho perso davvero tanto tempo quell’anno. Anche a livello psicologico non stavo bene, ero davvero dispiaciuto di non poter dare il mio contributo ad una squadra che aveva speso dei soldi per avermi. Sembrerà strano, ma mi sentivo quasi in colpa, volevo giocare ma ci è voluto molto per capire cosa avessi”.

Hai parlato del fallimento dello Spezia, ma anche il Rimini in quegli anni ha avuto diverse difficoltà a livello societario. C’erano già dei sentori di come sarebbe andata a finire?
“A la Spezia sinceramente sì, mentre a Rimini non sospettavamo nulla. C’è, però, una differenza tra le due situazioni, perché mentre nel primo caso si trattava di un fallimento vero e proprio, nel secondo è stata la proprietà a chiudere. Di fatto, noi abbiamo avuto lo stipendio fino a giugno, ma abbiamo perso tutto il resto del contratto”.
Così ti svincoli dal Rimini e trovi l’accordo con il Varese. Nel dettaglio come è andata la trattativa? C’era qualcuno in particolare che ti voleva portare in Lombardia?
“Sì, a Varese mi voleva Sannino, lo conoscevo da tempo e aveva giocato insieme a mio padre. Mi aveva seguito da quando ero ragazzino, il primo contatto è stato con lui, anche se poi, ovviamente, ho formalizzato tutto con il direttore Sogliano”.
Hai dovuto fare anche un provino prima di firmare ufficialmente il contratto, vero? Non credo che per un giocatore con la tua esperienza sia stato facile rimettersi in gioco in maniera così importante.
“Incredibile ma vero, è andata proprio così. Sicuramente non l’ho vissuta bene, avevo circa 200 partite alle spalle, non sono situazioni che ti aspetti di affrontare dopo una carriera come la mia. Però nella vita le cose vanno così, ogni tanto bisogna rimboccarsi le maniche, abbassare la testa e ripartire. Diciamo che sono proprio questi momenti che ti fanno crescere davvero, e il mio è un episodio che racconto a tutti quei ragazzi che devono fare contratti importanti o che perdono un po’ il senso della realtà. Ripeto, la vita è fatta di alti e bassi, e quello è stato uno dei momenti più difficili della mia carriera, ma proprio grazie a quella stagione sono tornato a vivere tanti momenti intensi”.

Tra l’altro in quel Varese c’era anche Massimo Zappino, compagno di tante avventure che, in seguito, ritroverai anche a Frosinone e con cui hai condiviso momenti importanti.
“Massimo è stato il giocatore con cui ho giocato per più tempo, considerando anche i 7 anni in Ciociaria. Sappiamo tutti come è fatto, è un ragazzo sempre allegro, generoso ma allo stesso tempo ha grande personalità, cosa che in campo gli permetteva di fare la differenza. Era un giocatore molto forte, a cui sono rimasto legato”.
Il provino è stata un’esperienza che ti ha fatto maturare e in effetti nella stagione 2010/11 hai fatto particolarmente bene. In 33 partite, considerando anche coppa e playoff, hai fatto anche 3 gol. Cosa pensi di aver dato in più a quel Varese?
“Ho sicuramente dato la mia esperienza, perché nonostante fossi abbastanza giovane sono riuscito ad esprimere al meglio le mie qualità. Sono entrato in punta di piedi, c’era una squadra molto forte e non è facile inserirsi in determinati equilibri. Loro avevano vinto anche il campionato l’anno prima, avevano meccanismi già ben consolidati, ma diciamo che da gennaio, dopo che hanno venduto Buzzegoli, ho avuto decisamente più spazio. Ho fatto una buona stagione fino ai playoff, poi sappiamo tutti come è andata”.
C’è qualche rammarico per come è andata quell’esperienza? Andando anche oltre l’eliminazione ai playoff contro il Padova.
“No per quanto riguarda la stagione nessun rammarico, penso che abbiamo fatto comunque un ottimo campionato, nonostante ci fossero squadre più attrezzate di noi. L’unica cosa è che non mi va giù è proprio la sfida contro il Padova, in particolare quella di ritorno. Eravamo in vantaggio 2-0 dopo un quarto d’ora e stavamo dominando fino all’infortunio di Neto Pereira. Con lui in campo sono sicuro che saremmo approdati in finale, purtroppo dopo il cambio ci siamo abbassati troppo e abbiamo subito le loro pressioni”.
A fine anno, però, cosa è successo? Perché non sei riuscito a trovare un accordo con la società per il rinnovo?
“Ricordo che erano andati via Sannino e Sogliano, c’era stato un cambio importante nella dirigenza. Sono andato a Milano per mettermi d’accordo con la società, ma la prima chiacchierata non era andata per niente bene. Dopo quell’episodio, loro sono completamente spariti”.
Ma il problema qual era? Troppa distanza tra l’offerta e le tue richieste? O c’era anche dell’altro?
“No assolutamente, c’era una differenza tra domanda e offerta, ma era davvero minima. Per me ci si poteva lavorare sopra tranquillamente ed arrivare ad un accordo, ma evidentemente non c’era la volontà da parte loro di rinnovarmi il contratto. Avranno avuto in mente altre soluzioni. Ci sono rimasto male, anche perché mi ero trovato davvero bene in quella squadra e ho ottimi ricordi anche dell’ambiente. Vivevo bene in città, stavo alla grande, c’era grande entusiasmo e sarei rimasto molto volentieri. Purtroppo nel calcio le cose cambiano in fretta, si sa, e in ogni caso possiamo dire che è stata l’occasione che mi ha permesso di andare a Frosinone ed iniziare un percorso stupendo”.
Riguardo al trasferimento a Frosinone, hai più volte dichiarato che ti ha, sin da subito, “affascinato il progetto che ti ha illustrato il presidente Stirpe”. Si può sapere cosa ti ha detto esattamente?
“Semplicemente che in due o tre anni voleva andare in Serie A. Se non ce ne ha messi tre, in cinque è riuscito comunque a raggiungere il suo obiettivo”.
Però hai dovuto fare un ulteriore passo indietro per trasferirti in Ciociaria, rimettendoti in gioco ancora una volta e ripartendo dalla Lega Pro.
“Vero, ma diciamo che quando ho fatto questo tipo di scelte mi è sempre andata bene. Sicuramente quando sono arrivato a Frosinone non c’era una situazione facile. Noi avevamo fatto i playoff con il Varese e loro erano appena retrocessi, il malcontento era palese e tanti giocatori erano in uscita. È servito sicuramente del tempo per ricostruire, tanto che abbiamo vinto il campionato dopo tre anni, nella stagione 2013/2014. Però, diciamolo, c’erano le potenzialità per fare bene, con il presidente Stirpe che è sicuramente una persona che ci tiene alla squadra e al territorio, e questo legame con la propria terra si avverte anche dall’esterno”.

In chiusura. Sono tante le partite che ti hanno visto protagonista nella tua esperienza a Frosinone, ma se dovessi chiederti di una in particolare, penso a quella del 7 giugno del 2014. Finale dei playoff di Serie C contro il Lecce, atmosfera incredibile e gara in cui segni il gol decisivo, con tanto di dedica al papà venuto a mancare da poco. Possiamo dire che è stata la partita perfetta?
“Quella è stata semplicemente “La Partita”, quella con la P maiuscola. È stata sicuramente la gara più importante della mia vita, venivo da un periodo drammatico, non era facile per me. Diciamo che la considero una sorta di premio per aver sofferto tanto, oltre che una ricompensa per una città che meritava di tornare a certi livelli dopo tre anni di sacrifici. L’atmosfera era irripetibile, quasi da calcio argentino, con la gente che era in fibrillazione già da giorni. Era tutto pazzesco, sembrava quasi un film. Credo che il boato del Matusa dopo il gol lo ricorderò per sempre e poi diciamolo, se qualcuno avesse dovuto scrivere un copione perfetto, credo che lo avrebbe scritto proprio così”.
Ti aspettavi di tornare in Serie A dopo così tanto tempo rispetto all’esperienza a Bologna?
“Sinceramente me lo aspettavo a La Spezia, stavo bene e avevo avuto delle richieste dalla Serie A, tra cui l’Atalanta, il Livorno e qualche altra squadra. L’infortunio mi ha sicuramente penalizzato e non avrei mai pensato di tornare in massima serie dopo quello che ho passato. Ci ho sperato con il Varese, quello sì, e poi con il Frosinone, dove è avvenuto tutto in maniera naturale. Esordire contro la Juve a Torino, con la fascia da capitano al braccio, è stata un po’ la chiusura del cerchio. Poi peccato per come è andata, a Frosinone siamo mancati nei dettagli e ci abbiamo messo troppo tempo a capire la categoria, anche se alla fine eravamo diventati anche una squadra temibile, soprattutto in casa. Ci sono state una serie di coincidenze che ci hanno condannati alla retrocessione, ma siamo stati anche molto sfortunati”.

L’ultimissima. Come ti trovi nella tua nuova veste da direttore sportivo? E’ completamente un’altra vita, ma ti stai togliendo, anche ora, delle belle soddisfazioni.
“Assolutamente sì, è una bella avventura e sono contento che siamo riusciti a prendere alcuni giocatori interessanti come Novakovich, Rohdén, Kastanos e tanti altri. Se vogliamo parlare di obiettivi sfumati, non ho nemmeno grandi rimpianti per quanto fatto in questi due anni. Volevamo prendere Parzyszek nella scorsa stagione ma alla fine è arrivato lo stesso, seppur con un anno di ritardo. Poi è normale, all’inizio non è stato semplice passare dal campo alla scrivania. Stiamo parlando di un mestiere completamente diverso, ma in fondo è una cosa che mi piace e mi sto trovando bene. Certo, iniziare e gestire subito una retrocessione non è facile, c’erano diversi malumori e bisognava ricompattare il gruppo. Piano piano stiamo ricostruendo, e speriamo di poter fare il campionato competitivo che abbiamo programmato.
E’ arrivato da poco Angelozzi in società, sicuramente avrete già avuto modo di confrontarvi su molti aspetti.
“Sì, certamente, anche perché lui sarà il direttore dell’area tecnica e io il suo “aiutante”. Abbiamo già visto diversi allenamenti assieme, è una persona che ha tanta esperienza e può insegnarmi tanto, come del resto ha fatto anche il direttore Salvini. E’ una persona a cui devo molto”.
Gabriele Rocchi