Gianluca Porro, Simone Moretti e Nicola Zanini: tre destini che si uniscono. La stagione di questi allenatori si intreccia in un vissuto similare, specchio di un trend che non intende accettare flessioni o cambi direzionali. Tutti e tre, infatti, hanno guidato le rispettive squadre (Città di Varese, Caronnese e Sona) fin dalla preparazione estiva, venendo esonerati (o comunque si è giunti alla separazione tra le parti) dopo aver inanellato una serie di risultati insoddisfacenti per le rispettive società, salvo poi essere successivamente richiamati nuovamente all’ordine, spazzando via sostituti e stagione intera come foglie d’autunno.

Questa condotta messa in atto dalle società genera inevitabilmente delle riflessioni. Per provare ad esprimerle, immaginandone i possibili passaggi che possono portare al suddetto modus operandi, ci affidiamo alle parole di una celebre canzone dell’indimenticabile e geniale binomio composto da Giulio “Mogol” Rapetti e Lucio Battisti.

“Ancora tu, non mi sorprende lo sai”

Consapevolezza colma di rassegnazione e amarezza. Tra “minestre riscaldate” e “cavalli di ritorno”, gli epiteti si sprecano ma la sostanza non cambia: le trame già scritte e scontate risultano noiose ma trasmettono un triste senso di sicurezza. Esonerare un allenatore e richiamarlo poco dopo, non necessariamente può rappresentare un atto di autolesionismo in termini di risultati, ma senza dubbio lo è in termini d’immagine. Delegittimare e successivamente riconfermare la fiducia, oltre a creare malumori e disillusioni, sembra anche un’ottima maniera per creare sterili giustificazioni intenzionate a nascondere un vuoto di programma.

Questo genere di operato si rivela una pratica in uso tanto nel professionismo quanto nel dilettantismo e gli episodi sono talmente tanti da non riuscire ad elencarli. Fortunatamente però esistono anche casi storici in cui la scelta di riassegnare il ruolo si rivela vincente, basti pensare all’avventura di Eusebio Di Francesco in quel di Sassuolo. Giunto in Emilia nell’estate del 2012, l’abruzzese centra subito la prima e memorabile promozione in Serie A della società neroverde, ma il debutto nel massimo campionato si rivela più difficile del previsto. Il 28 gennaio 2014 viene esonerato in favore dell’esperto Alberto Malesani, ma il veneto aggrava la situazione convincendo la dirigenza a riaffidarsi a Di Francesco. L’ex centrocampista ripaga la scelta salvando la squadra e trascinandola due anni dopo verso la prima qualificazione nelle coppe europee (Europa League 2016-2017, ndr).

“Ancora tu, ma non dovevamo vederci più?”

Domanda lecita, specie se certe separazioni arrivano al termine di un rapporto divenuto ormai burrascoso, promettendo separazioni a tempo indeterminato. E allora, qual è il senso di richiamare lo stesso allenatore dopo appena qualche giornata di campionato? Ogni caso è a sé stante, ma è fuori dubbio che le ragioni si annidino sotto vari aspetti. Generalmente il discorso può essere di natura puramente economica, poiché riportare all’ovile un tecnico ancora sotto contratto costa sempre meno che cercarne un altro, a maggior ragione se chi lo ha rimpiazzato è riuscito a fare peggio. Inoltre questo modus operandi può rappresentare per i club anche una soluzione per accontentare quelle fette di tifosi in disaccordo con le manovre societarie, facendo passare il messaggio che l’opinione dei seguaci abbia davvero un peso specifico non indifferente. Gli slogan del tipo “scurdammoce ‘o passato” sono certamente utili per ripulirsi il volto e creare titoli utili per la stampa, ma francamente lasciano il tempo che trovano.

“E come stai? Domanda inutile… Stai come me, e ci scappa da ridere”.

Già, perché a conti fatti nessuna delle parti in causa esce realmente soddisfatta dalla questione, e quel che resta (se resta) è soltanto il sorriso di circostanza per le fotografie di rito. Non è felice la società nel puntare nuovamente su di un tecnico nel quale non ha creduto (o non crede) veramente e sta pure peggio l’allenatore stesso, conscio di essere la ruota di scorta di sé stesso.

Seppur colorito dal pretesto musicale, appare chiaro che questo atteggiamento sia un costume oramai consolidato in questo calcio italiano così frettoloso, pretenzioso ed arrivista, nel quale il raggiungimento del risultato conta sempre più del lavoro e della pianificazione. Puntare alla meta senza prestare attenzione al viaggio comporta il forte rischio d’incidenti di percorso: a quanti ancora ne dovremo assistere prima che questo spiacevole trend possa invertire la propria rotta?

Dario Primerano

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