Un crociato saltato a 17 anni, l’altro a 22: la dea bendata non è certo stata benevola con Andrea Bottarelli che ha dovuto chiudere anzitempo la sua carriera da calciatore vissuta tra Ceresium, Viggiù, Malnatese e Rasa. Un percorso, comunque, che è servito ad avvicinare il classe ’88 alla sua vocazione, quella di allenatore, anche se la virata sul calcio femminile non era probabilmente preventivata. Inaspettata sì, ma determinante nel formarlo come tecnico dal punto di vista professionale e soprattutto umano: una crescita parallela a quella del suo Città di Varese.

“Dopo dieci anni di settore giovanile tra Arcisatese Audax, Viggiù e Cerbis – spiega Bottarelli –, avevo bisogno di nuovi stimoli. Nel momento in cui mi è stata proposta la sfida del Varese in Promozione non ho avuto dubbi e non mi pento: credo che chiunque, dopo essersi formato nel calcio maschile, debba sperimentare quello femminile per capire le differenze. Con le ragazze l’80% del lavoro si fa a livello umano e non è facile entrare in quest’ottica: io stesso, non ho problemi a dirlo, volevo smettere dopo due mesi. Perché? Non arrivavano i risultati, eppure secondo le ragazze andava tutto bene. Dopo la batosta con il Cantalupo, dal 3-0 dell’intervallo abbiamo perso 6-4, ho deciso di svoltare: sono cambiato dal giorno alla notte, sfruttando la mia passione per la psicologia per relazionarmi con ogni singola calciatrice. Da lì è iniziata un’avventura meravigliosa”.

Viste le difficoltà iniziali, come ti è servita la psicologia per “conquistare” la fiducia della squadra?
“C’era un muro da abbattere e ho iniziato nella maniera più semplice e genuina possibile: attraverso bigliettini anonimi ho fatto scrivere ad ognuna delle ragazze cosa non funzionava secondo loro. Da lì si è iniziato a creare uno splendido rapporto umano, attraverso il dialogo, e ho capito come trattare individualmente ogni calciatrice. Il Cap (Francesca Vaccaro, ndr) e la mia vice Katia Ferrario sono stati determinanti nell’aiutarmi a bruciare le tappe e a capire certe dinamiche: passavamo dai 40 anni di Francesca ai 16 anni delle più piccole. Ho capito chi aveva bisogno della parolina dolce, chi della strigliata al momento giusto e chi altro ancora: a tutte, comunque, scrivo sempre dopo la partita. Dietro c’è, per l’appunto, tanta psicologia. So di allenare nel dilettantismo, ma mi reputo un professionista: il tempo è la cosa più importante che ho e, in cambio, pretendo professionalità. In realtà (sorride, ndr) mi danno molto di più perché, oltre alla costante presenza di tutta la squadra ad ogni allenamento, qui ho trovato piccoli gesti, come un semplice grazie o un pensierino per il compleanno, che fanno davvero la differenza”.

Questo atteggiamento professionale dove può portare?
“Io sono ambizioso e non nascondo di voler arrivare nel professionismo. Ho appena preso il secondo patentino, studio tanto, fatico a dormire di notte perché i miei pensieri sono costantemente rivolti all’evoluzione del calcio moderno e non riesco a vedere ciò che faccio come un passatempo; è a tutti gli effetti un secondo lavoro e do tutto me stesso. Futuro? Non ho ancora parlato con la società. È chiaro che vorrei rimanere, ma dovrà esserci la possibilità di rimanere: per me e per le ragazze salire di livello sarebbe la giusta ricompensa per tutti i sacrifici fatti”.

Al netto di ciò, cosa manca a livello prettamente tecnico per salire in Serie C?
“Quattro o cinque innesti. Due difensori, una centrocampista d’esperienza da affiancare alle nostre più giovani e un paio di profili d’avvenire per rinforzare la panchina. L’ossatura è davvero buona perché, dopo il Lecco, tra le neopromosse siamo la migliore”.

Prima di parlare del presente, facciamo un passo indietro. L’attuale livello è frutto del lavoro, di cui in parte abbiamo già parlato, dell’anno scorso: che bilancio puoi trarre dell’annata in Promozione?
“Quando abbiamo agganciato i playoff sono scoppiato a piangere: neanche da giocatore avevo provato emozioni del genere. È stata un’annata difficilissima con un gruppo composto in parte da ragazze che non avevano mai giocato a calcio: non avevamo un campo su cui giocare e continuavamo a spostarci per tutta la provincia, non avevamo un portiere a causa di un infortunio e ci siamo reinventati costantemente, eppure ce l’abbiamo fatta. Sono state emozioni folli e uniche: siamo partiti con un abisso di distanza dalle altre, con un allenatore alle prime armi, ma con il lavoro abbiamo recuperato tantissimo terreno”.

Passi in avanti che si sono visti anche in Eccellenza: dalle due sconfitte a inizio del girone d’andata alla vittoria con il Minerva e il ko di misura con la capolista Monterosso. Cosa è cambiato?
“Tutto, a cominciare dall’innesto di pedine nuove che all’inizio non c’erano. Vitali è una ragazza d’oro, una scoperta straordinaria, Savi e Mocciaro sono per noi importantissime e poi, inevitabilmente, abbiamo pagato il cambio di categoria: all’andata contro il Monterosso sul 4-1 ho fatto un po’ di cambi perché ormai la partita era andata e quel 7-1 lascia il tempo che trova. Domenica, invece, proprio contro le bergamasche ce la siamo giocata alla pari, se non meglio di loro, e quella prestazione mi ha confermato le potenzialità di questo gruppo. Giocando così ne perderemo davvero poche, ma la difficoltà sarà mantenere quel livello in maniera costante; di sicuro siamo più consapevoli dei nostri mezzi”.

Ti aspettavi qualcosa in più dalla Coppa?
“Onestamente no. Se fossimo passati saremmo stati solo felici, sia chiaro, ma contro il Sedriano eravamo corti a livello numerico, c’era qualche acciacco di troppo e tendenzialmente soffriamo di più nelle partite fisiche. Abbiamo anche sbagliato un rigore e la sconfitta, giusta, ci ha condizionato nella partita successiva contro il Vighignolo perché sapevamo di essere già matematicamente fuori. Avendo una rosa corta, comunque, non è un dramma esser stati eliminati perché l’impegno avrebbe richiesto un notevole sforzo”.

Prospettive sul prosieguo del campionato?
“Se dovessimo chiudere al sesto o settimo posto sarebbe qualcosa di clamoroso. Tutte le squadre che ci sono davanti lo sono per merito e l’ottava posizione rispecchia il nostro attuale valore: a volte ci è andata bene, indubbiamente, e l’unica partita in cui abbiamo buttato via i due punti è stata con il CUS Bicocca. Sapevo che in Eccellenza avremmo dovuto fare un gran campionato perché ne avevamo bisogno come ambiente: Cavallin e Bogni sono costantemente in Rappresentativa, Di Giorgio è una delle centrocampiste più forti che ci sia, Lunardi ha fatto la Serie B, Mauro ha un cuore enorme, Mocciaro e Brazzale sono encomiabili così come tutte le altre. E poi c’è il Cap: vedere ciò che fa alla sua età è qualcosa di magico. Molte ragazze, poi, hanno iniziato tardi a giocare e i margini di crescita sono davvero ampi. Proprio per questo bisogna iniziare a pianificare per tempo la prossima stagione: serve capire dove e come muoversi in uno scenario che, per quanto in espansione tra Azalee, Gorla e Laveno, è ancora all’inizio”.

Assist perfetto per l’inevitabile domanda: cosa rispondi a chi dice che il calcio femminile non è calcio?
“Quelli che lo dicono sono gli stessi che dicono che la Serie A è scarsa. Semplicemente il calcio non è più quello di vent’anni fa perché oggi è molto più tecnico: i portieri devono saper giocare con i piedi, i difensori devono impostare e, in generale, la rapidità è l’aspetto più importante. È un calcio diverso dal passato, ma è sempre calcio, così come il calcio femminile è diverso pur restando tale. Certo, le differenze ci sono, ma questa differenza va intesa nell’accezione più positiva possibile: è innegabile che le donne paghino la prestanza fisica, ma la compensano con impegno, determinazioni e sacrifici pazzeschi. Poi, anche a livello tecnico adesso iniziano a vedersi giocate di tutto rispetto e i portieri, fino a qualche tempo fa il vero tallone d’Achille, stanno crescendo tantissimo. La differenza più grande, comunque, è che le donne non giocano per soldi: le donne giocano perché vogliono giocare a calcio”.

Un commento sul pubblico?
“L’affetto nei nostri confronti c’è ed è innegabile perché ad ogni partita alle Bustecche abbiamo almeno un centinaio di persone aggrappate alla rete. Nel mio cuore spero di avere il prima possibile la tribuna perché sarebbe bello vederla piena. Di sicuro ci fa piacere riscuotere consensi”.

Non possiamo non chiudere senza un doveroso ringraziamento: a chi va il grazie più grande?
“A Chiara, la mia compagna, perché ha una pazienza incredibile, e ai miei piccoli Mattia e Sofia. All’inizio non è stato facile, ma Chiara sa che allenare mi fa star bene e ha capito che non posso rinunciarci. I sacrifici sono tanti: ogni sera è lei a mettere a letto i bimbi e difficilmente riusciamo ad organizzarci un weekend. Eppure le cose vanno sempre meglio, ora c’è anche più interessa da parte sua e, quando fa più caldo, viene a vedere le partite. Sulla chat di gruppo, poi, non può mancare il vocale d’incoraggiamento di Mattia. Credo che anche queste piccole cose siano davvero belle e mi rendono orgoglioso di ciò che faccio”.

Matteo Carraro

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