E’ di ieri la notizia che il patron del Città di Varese, Antonio Rosati, è stato condannato a 2 anni e 4 mesi dopo che la richiesta dell’accusa era stata di 9 anni. Una riduzione di pena importante, una quasi assoluzione, che commentiamo a caldo con il diretto interessato: “Le sentenze non si commentano ma si accettano, come ho accettato, senza condividerla, la sentenza di primo grado, accetto questa di appello dove sono stato assolto su 19 capi d’imputazione su 20 e dove finalmente, dopo 9 anni, sono emersi tendenzialmente i fatti analizzati e studiati dalla procura generale in Corte d’Appello che, smontando questa presunta associazione, di fatto ordina di restituire tutti i beni sequestrati“.

Entrando nello specifico: è possibile che dopo nove lunghi anni di attesa e una prima pesantissima condanna richiesta in primo grado, poi vi sia un ribaltone del genere?
“Nella vita tutto è possibile ma se andate a rivedervi la storia di questo processo, potrete notare come già anni fa il Giudice delle Udienze Preliminari (GUP, ndr), aveva espresso le stesse motivazioni alle quali è arrivata adesso l’accusa e conseguentemente il collegio giudicante”.

Resta un capo d’imputazione aperto sul quale pende una condanna di ventiseimesi?
“Andremo a discutere questo ultimo capo d’accusa in cassazione. Ci sono tutti i presupposti perché cada anche quella, in modo da poter chiudere in via definitiva con una sentenza tombale tutta la questione. Vorrei sottolineare come questo capo d’accusa, tra l’altro, si prescriverebbe tra qualche settimana, ma tant’è…”.

Come stai vivendo questi momenti, quali sono le prime sensazioni nell’evolversi di questo calvario durato nove anni anche se ancora non completamente terminato?
“Sentimenti contrastanti: tristezza per gli anni passati sotto questa spada di damocle; rabbia per essersi visto cancellare dieci anni fa, nel pieno del mio sviluppo imprenditoriale, 25 anni di sacrificio in un attimo; incredulità per l’evolversi processuale; gioia tendenzialmente per la fine di un incubo e soddisfazione per aver dimostrato ai miei cari e a tutte le persone che mi vogliono bene e che mi stimano, l’ingiustizia di quanto accaduto”.

Dispiaceri particolari?
“Tanti, in primis l’immediata condanna mediatica subita, la difficoltà a dover ripartire da sottozero contro tutto e tutti, potendosi basare solo sulle proprie capacità. Solo i miei cari e le pochissime persone che mi conoscono bene non mi hanno mai tolto fiducia e rispetto. Un grande dispiacere me lo ha provocato aver visto come unici veri condannati di questo processo, che hanno praticamente subito un ergastolo civile, tutti quei dipendenti, ricordo che per il mio gruppo lavoravano circa cinquemila persone tra diretti e indotto, che prossimi alla pensione hanno avuto grosse difficoltà al ricollocamento in vari casi non più ottenuto”.

Cosa farai adesso?
“Quello che non ho mai smesso di fare: lavorare. Dopo 9 anni ho trovato una nuova dimensione, vivo in Svizzera e mi sono specializzato in consulenze e ristrutturazioni aziendali di alto profilo sia in Italia che all’estero, continuerò a far questo. Dedicherò più tempo ai miei cari e a me stesso”.

Per quanto riguarda il Varese Calcio, ti sei impegnato a scedere in campo in maniera più importante proprio qualche mese fa. Ora potrai riprenderai in mano completamente le sorti dei biancorossi?
“In questo momento il mio primo obbiettivo è sportivo: la categoria deve essere matenuta! Faremo poi con la proprietà e le istituzioni un’analisi accurata della situazione ben sapendo che le volontà e le possibilità sono orientate su un progetto di medio termine”.

Ci conosciamo da tempo, conosco bene le tue qualità e le tue possibilità, ma ho un’ultima curiosità personale da chiederti: dove hai trovato la forza per affrontare tutto questo?
“Semplice: l’ho ricercata innanzitutto dentro me stesso poi negli occhi dei miei figli e della mia compagna”.

Michele Marocco

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