Che un coach olandese, in arrivo dalla Germania, a gennaio, potesse cambiare quello che sembrava essere ormai il destino segnato della Openjobmetis Varese francamente nessuno se lo poteva aspettare.
Che poi lo facesse nel giro di pochissime settimane sembrava proprio voler non guardare in faccia alla realtà dei fatti e delle difficoltà.

Ma tant’è che tutto questo è successo in casa Pallacanestro Varese che, con l’arrivo di Johan Roijakkers, ha visto ribaltarsi il proprio mondo passando dall’ultimo posto in classifica al nono, dal non riuscire a riconoscersi squadra all’ essere riconosciuta tale da tutti gli avversari, dall’ avere timore all’ essere temuta.

Sarà il suo modo di fare, la sua proverbiale calma, la freddezza con cui affronta ogni situazione, anche le più complicate e pure quel pizzico di pazzia che gli ha fatto vincere la scommessa più impensabile a gennaio, ovvero risalire la china con i giovani finora ai margini della prima squadra, ma tant’è che Roijakkers ha cambiato il destino biancorosso, in una tappa della sua carriera che rimarrà indelebile.

Una storia nel mondo della pallacanestro che parte da lontano, in Olanda, che passa per gli USA fermandosi in Germania fino all’Italia. Una storia iniziata grazie al suo vicino di casa che lui ci racconta cosi.

Quando è nata la sua passione per la pallacanestro?
“E’ nata quando ero piccolo. Il mio vicino di casa in Olanda era anche il mio allenatore e tra l’altro sarà qui domenica per vedere la partita. Ho fatto un periodo, tra i 9 ed i 14 anni in cui avevo smesso di giocare, ma poi il richiamo del basket è stato troppo forte per non riprendere. Il diventare allenatore è arrivato dopo, negli USA ed in particolare nel Queens, quando ho iniziato a capire cosa volesse dire diventare un coach e da quel momento non mi sono più fermato”.

Che tipo di giocatore era quando era giovane?
“Non ho mai avuto un ruolo definito. Ho giocato in tutte le posizioni, partendo dall’essere playmaker fino ad arrivare a giocare da centro, nonostante non abbia certo una stazza come i lunghi che vediamo solitamente in campo. Sono stato un giocatore molto rapido, aggressivo ed a cui piaceva tirare, ero anche bravo, infatti diciamo che alla fine avevo trovato la mia dimensione ideale come guardia tiratrice. Una cosa che però ho imparato dai tempi in cui ho giocato e che mi porto ancora dietro, è il fatto che un giocatore deve essere bravo in qualsiasi schema e posizione, mostrando versatilità e adattabilità al contesto”.

Che esperienza è stata quella negli USA, in particolare a Houston, dove poi ha conosciuto Luis Scola?
“Assolutamente molto interessante. Passavo tanto tempo con i Vipers e 3/4 giorni la settimana insieme ai Rockets. Ho scoperto un modo diverso di concepire la pallacanestro, un basket molto più veloce, fisico, nel quale giocare con quintetti dinamici, rapidi, capaci di attaccare con grande fluidità nel loro complesso. Questo mi ha aperto la mente, ho capito che esisteva un modo diverso da quello europeo di concepire il gioco e la vittoria finale. Oggi cerco di portarmi dietro quell’insegnamento e di unirlo a quella che è la cultura cestistica europea, in quello che secondo me può essere un mix davvero efficace”.

La Germania per lei è stata ed è tutt’ora una nazione molto importante, sia dal punto di vista personale che professionale. A Gottinga ha passato 8 anni della sua vita, che rapporto ha con la città e con la società?
“Il rapporto con Gottinga è speciale. La definisco senza alcun problema la mia seconda casa. Quando sono arrivato il club era messo malissimo: giocavamo in seconda divisione, non c’erano uffici, strutture adeguate ed organizzazione in società. Io con il resto dello staff e con le persone che hanno iniziato a lavorare in società dopo il mio arrivo, in due anni siamo riusciti a costruire ciò che prima non c’era. Abbiamo riportato la squadra in prima divisione, aprendo un percorso di crescita con i giocatori importante, mettendoli in condizione di esprimersi al massimo. Ho cercato di portare qualche idea ed innovazione frutto dell’esperienza in NBA e anche questo ha aiutato. Si era creata una vera e propria squadra che collaborava in tutto e per tutto, non solo in campo ma anche al di fuori, io in primis, pur essendo solo l’allenatore, ero coinvolto in tantissimi ambiti della società. Il culmine della nostra crescita sono stati poi i playoff degli ultimi due anni, dove eravamo una squadra capace di non andare mai in crisi ma anzi, di continuare a crescere piano piano, partita dopo partita. Quando posso li seguo tutt’ora, so che quest’anno stanno avendo qualche problema a livello di infortuni ma faccio il tifo per loro”.

Quali differenze nota tra il basket tedesco e quello italiano?
“Il basket tedesco è sicuramente più rapido, più intenso di quello italiano. In Italia si va ad un ritmo inferiore, questo anche perché ci sono giocatori decisamente più strutturati fisicamente rispetto che in Germania. Ad esempio Keene è un prototipo di giocatore come se ne trovano tanti nel campionato tedesco: rapido e molto tecnico anche se non altissimo. In più in Germania ci sono allenatori di tante nazioni diverse come spagnoli, americani, italiani e questo fa sì che ci siano tante influenze diverse nel modo di giocare per le realtà in campo. Bisogna essere bravi a riuscire ogni settimana ad adattarsi a seconda dell’avversario che ti troverai davanti. Questo è un lavoro secondo me molto utile sia per i giocatori, che si confrontano con schemi sempre diversi, che per gli allenatori, che devono studiare tattiche differenti praticamente ogni giornata”.

Quando lei è arrivato a Varese le cose andavano molto male. Ora è cambiato tutto, perchè?
“Ci sono varie ragioni in questo cambiamento. Non posso giudicare ciò che accadeva prima del mio arrivo. Io guardo a me stesso, quando sono arrivato ho cercato di portare la mia idea di pallacanestro applicandola alle caratteristiche dei giocatori presenti in squadra. Ho cercato di semplificare gli schemi che avevamo, soprattutto in difesa, dando una sola impostazione tattica da seguire. Stiamo migliorando anche i tanti alti e bassi che prima avevamo all’interno di una stessa partita e questo credo sia determinante poi per raggiungere dei risultati ed avere una continuità. Devo dire che però a parte tutto il lato tattico del discorso, il vero segreto di questa squadra sono gli uomini che la compongono. Il gruppo è davvero ottimo, i ragazzi sono fantastici, sono un vero gruppo che si aiuta e sostiene in campo e fuori, sono ragazzi che amano stare insieme e queste sono qualità fondamentali ancora prima di quelle tecniche. La chimica che c’è tra loro la si vede poi in campo, sia in attacco dove si divertono, sia in difesa dove amano sacrificarsi l’uno per l’altro, sudare e faticare insieme”.

Varese dal suo arrivo ha vinto molte partite negli ultimi minuti come ad esempio a Brindisi, le piace questa cosa?
“Sì molto. Il fatto che riusciamo a vincere partite combattute e tirate fino all’ultimo denota un ottimo stato di forma della squadra. Devo dire che questo lo vedo molto in allenamento. L’intensità e la qualità della nostra settimana in palestra è cresciuta molto in questi mesi ed oggi riusciamo a lavorare anche duramente ma facendo meno fatica in campo rispetto a prima. Questo ci permette poi la domenica di portare avanti un certo piano tattico dal primo all’ultimo minuto, grazie ad un grande lavoro di gambe di tutta la squadra, che so essere dispendioso ma che da i suoi frutti”.

Per concludere le chiedo se ad oggi crede nei playoff?
“Non mi piace mai guardare troppo avanti o indietro. Mi concentro solo sul presente e su quello che sarà il nostro prossimo avversario, ovvero Treviso domenica. Dobbiamo concentrarci su di loro e poi su Trieste e così via, alla fine vedremo dove siamo in classifica”.

Alessandro Burin

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