Un ragazzo nato in provincia e che a quell’ambiente è sempre rimasto legato. Emanuele Pesoli, anagnino doc, è uno di quei ragazzi che, sin da piccoli, hanno avuto l’ambizione di arrivare in alto, nel calcio come nella vita. E così Emanuele, partito dalle giovanili della squadra della sua città, è riuscito, con sacrificio e dedizione, a raggiungere il massimo livello del calcio italiano, grazie al Siena di mister Sannino con cui, già dai tempi del Varese, aveva stretto un rapporto molto intenso. Un rapporto nato, come spesso accade nelle migliori storie d’amore, da un litigio dovuto a due caratteri decisamente troppo forti per non scontrarsi ma che, alla fine, è risultato essere vincente.
Con la maglia biancorossa, vestita nella stagione 2010-2011, Pesoli ha disputato un’annata da protagonista vissuta tra gioie, tante, e qualche piccolo rimpianto, dovuto a quello che è stato l’epilogo, probabilmente immeritato, di un anno che ha fatto sognare, tifosi biancorossi e non. La speranza, comunque, è sempre la stessa: tornare a Varese, questa volta da allenatore, cercando di regalare nuove gioie a quei tifosi con cui, comprensibilmente, si sente ancora in debito. 

Iniziamo parlando delle primissime fasi della tua vita. Come tu stesso hai scritto nella lettera di addio al calcio, da bambino hai dovuto “lottare tanto per difendere quel pallone” che, alla fine, è diventato il protagonista della tua vita. Come ti sei avvicinato a questo mondo?
“La mia era una famiglia normalissima, sicuramente facevamo tanti sacrifici ma avevamo dentro quello spirito che ci spingeva a non mollare mai, cosa indispensabile per migliorare una condizione difficile come la nostra. Da calciatore ho iniziato ad Anagni, dove ho fatto tutta la trafila delle giovanili, in quello che era ancora un calcio puro e spensierato. Di quell’Anagni, sento ancora adesso tantissimi compagni, ma se c’è una persona che devo ringraziare particolarmente è il presidente Specchioli. Diciamocelo, è stato solo grazie a lui che ho avuto la possibilità di far parte di un gruppo come quello già all’età di 16 anni e mezzo. Venivo considerato un bravo giocatore nonostante fossi ancora molto giovane”. 

Il presidente, però, lo ritroverai anche a Frascati qualche anno dopo. È proprio in virtù del bel rapporto costruito ad Anagni che, nel 2002, ti sei trasferito nella formazione romana?
“Assolutamente sì. All’epoca giocavo in C2 con il Tivoli, ma avevo appena 18 anni e la voglia di tornare ad Anagni era tanta, complice anche la lontananza dalla mia ragazza. Il pensiero, in quel periodo, è stato che non valesse la pena fare quel genere di sacrifici per una categoria che non era di primissimo livello. Però alla fine, ricevuta la chiamata del presidente Specchioli, ho deciso di seguirlo nella sua nuova avventura. Devo ringraziare anche mister Barbanti, il primo ad avere l’intuizione di cambiarmi ruolo e di farmi giocare in difesa”.

Nel giro di poco, però, arriva quella che apparentemente dovrebbe essere l’occasione della vita. Nel 2004, infatti, vieni tesserato dall’Ancona, all’epoca in Serie B, ma a pochi mesi dal tuo arrivo la società fallisce. Come è nata quella trattativa?
“E’ stato tutto inaspettato perché in una di quelle partite a Frascati in cui avevo fatto particolarmente bene, in tribuna era presente anche il presidente dell’Ancona che, vista la buona prestazione, si è segnato il mio nome tra quelli da seguire con maggiore interesse. A distanza di tre settimane, ha mandato un suo collaboratore per farmi firmare un contratto di tre anni”. 

Dicevamo, però, del fallimento. Puoi raccontarci quando, e soprattutto in che modo, avete capito realmente cosa stava succedendo?
“È stata una situazione quasi surreale. Quando sono arrivato, mi sono trovato “catapultato” in un gruppo fantastico, con gente come Rapai?, Ganz e Bucchi che in B avrebbe vinto il campionato a mani basse. È vero, si parlava già di una società che navigava in brutte acque e che potesse fallire da un momento all’altro, ma la squadra ormai era in ritiro, quindi non pensavamo potesse succedere qualcosa come quella che abbiamo vissuto. Invece una notte, mentre dormivamo ignari di tutto, siamo stati svegliati da alcuni rumori molto forti che provenivano da corridoi dell’hotel in cui eravamo in ritiro: era la Guardia di Finanza che era venuta a sequestrare tutto il materiale sia della società, che di noi giocatori. E così, alle 5 di mattina, mi sono ritrovato in viaggio da Cascia verso Anagni. Non avevo più squadra, mi sentivo fallito e, soprattutto, illuso”. 

E a livello personale, cosa hai provato in quel momento?
“Volevo smettere. Mi sentivo deluso da tutto, ho avuto le lacrime agli occhi per tutto il viaggio. Pensavo a quanto sarebbe stato difficile il ritorno alla normalità, dopo che avevo assaporato il clima di una realtà di Serie B e soprattutto dopo che avevo pensato anche di poter vincere quel campionato, iniziando a sognare un futuro di carriera completamente diverso. E invece, niente da fare, tanto che in quei momenti il mio unico pensiero è stato: ‘Se anche dovessero farmi un’offerta, non rispondo nemmeno al telefono. Non voglio più saperne'”.

Però, alla fine, una risposta l’hai data lo stesso.
“Eh sì, perché tra quelli che mi hanno chiamato c’era un numero che insisteva particolarmente. Era Ciccio Sotera, il direttore sportivo del Vittoria, che allora militava in C1. Fu lui a convincermi a tornare a giocare e, nonostante capisse lo sconforto, mi ha chiesto di raggiungerlo. Era il 17 agosto, mi ha convinto facendomi conoscere l’ambiente, il mare, la città. Non ti nego che all’inizio il mio pensiero era più che altro quello di farmi al massimo due giorni di vacanze al mare e poi tornare ad Anagni. Insomma, non ero convinto, ma alla fine farmi restare è stata la scelta migliore per tutti. Ho fatto 6 mesi in cui sono stato benissimo, prima di trasferirmi a Vicenza”.

Finalmente nel 2005, con la maglia del Vicenza, arriva quell’esordio in cadetteria che appena due anni prima avevi pregustato ma che mai, fino ad allora, eri riuscito a vivere. Che emozione è stata?
“È stato tutto bellissimo esperienza. Considera che alcuni amici di Anagni hanno voluto farmi una sorpresa e sono venuti allo stadio. Erano arrivati già molte ore prima della gara e l’emozione è stata davvero incredibile. E poi, mi piace pensare che fosse un po’ tutto scritto, perché il gol all’esordio, con loro presenti, è un qualcosa che non succede nemmeno se te lo prepari”.

In Veneto, nonostante nel finale di stagione eri riuscito anche a ritagliarti uno spazio importante, vivi anche il dramma della retrocessione, poi sventata grazie al ripescaggio in cadetteria nell’estate successiva. Speravi, dal canto tuo, di riuscire a dare un contributo maggiore alla tua squadra?
“Sinceramente non lo so, ma posso dire con tutta franchezza che non ero ancora pronto per la B. La mia reazione, in ogni caso, è stata completamente diversa rispetto alle esperienze passate. Quello che prima era un bambino, nel frattempo diventato era un adulto professionista. La delusione, certo, era tanta, ma non ho più avuto l’idea di mollare e così, sono riuscito a ripartire”. 

Perché dici che non eri pronto per la Serie B? In che cosa sentivi di dover migliorare?
“Avevo bisogno di minutaggio. Se un giocatore passa dal fare la Serie D a Frascati a disputare la Serie B con il Vicenza in circa un anno e mezzo, è normale che deve fare tanta esperienza e io alle spalle ne avevo davvero poca. Così, insieme alla società, abbiamo optato per un trasferimento a Venezia in quella, in un certo senso, è stata la mia svolta. Nella laguna, sono maturato tantissimo sotto tutti i punti di vista”. 

Nell’estate del 2010, ti trasferisci a Varese. Come è nata la trattativa che ti ha portato a vestire la maglia biancorossa?
“All’epoca avevo ben otto squadre che mi volevano, Padova e Frosinone su tutte, ma a pelle non me la sono sentita di andare da loro. Considera che il direttore Graziani (ex ds del Frosinone, ndr) mi aveva fatto un’offerta davvero importante e mancavano da risolvere solamente pochi dettagli per far andare in porto l’operazione. Appena ricevuta la chiamata del direttore Sogliano, però, ho avvertito immediatamente un ottimo feeling e l’unica idea che volevo prendere in considerazione era quella di trasferirmi in Lombardia. Sono quelle cose che non ti spieghi, quelle scelte irrazionali che però ti senti di fare, e considera che quando ho chiamato i direttori delle altre squadre che mi avevano fatto delle offerte, mi hanno letteralmente preso per pazzo”. 

Nonostante tutto, però, devi ammettere che andare a giocare in una neopromossa poteva rappresentare un rischio per te. Non hai mai pensato alle possibili conseguenze che poteva comportare una scelta del genere?
“Sicuramente sì, e lo ammetto, andare a Varese è stata una pazzia a tutti gli effetti. Ricordo che alla fine del mercato estivo erano solo due i giocatori affermati per la B, io e Cellini. È stata una scommessa enorme, ma alla fine si è rivelata vincente. A posteriori, posso dire che è stata davvero la scelta migliore per me, e quelli che porto dentro sono ricordi a dir poco stupendi. Quella Lombarda, è stata un’esperienza unica, tanto che, un giorno, spero davvero di riuscire ad allenare i biancorossi, anche perché mi sento un po’ in debito con loro”.

Perché ti senti in debito? Parli di quel gesto in cui, ai tempi della militanza al Carpi, hai mimato il gesto della “C” con la mano nei confronti dei tifosi del Varese?
“Esatto. Quella “C”, però, va ricordato che è nata dopo 90 minuti d’inferno e dopo una nottata in cui la gente era venuta a protestare sotto l’hotel. Potevo fare qualsiasi gesto, e invece mi è uscita quella lettera, di cui mi sono pentito immediatamente. Ancora oggi, chiedo scusa per quello che ho fatto, perché non avrei mai augurato che il Varese retrocedesse”.

I malumori nei tuoi confronti, però, erano dovuti evidentemente ai fatti legati al calcioscommesse che, in qualche modo, avevano fatto discutere. Senza parlare dell’aspetto legale della vicenda, quanto, e in che modo, influisce un episodio del genere sulla vita di un calciatore?
“Diciamo che l’opinione pubblica ti “trita”. È incredibile quanto possa affossarti il solo pensiero che tu possa aver fatto qualcosa di sbagliato, anche se in realtà non hai commesso assolutamente nulla di illegale. Nella vita, però, bisogna riuscire a superare dei momenti brutti, in cui ho ricevuto anche messaggi anonimi. Però, bisogna dirlo, sono sempre stato a posto con la coscienza, e ho sempre voluto metterci la faccia perché sono stato sempre certo della mia estraneità dai fatti. Peccato che ad offendermi, siano state anche alcune persone che fino a pochi giorni prima sembravano essere persone fidate ma che, invece, sono cambiate dall’oggi al domani, mandandomi messaggi di rancore puro”.

È anche per quello che hai reagito con quel gesto?
“Sì, anche se quando sono tornato all’Ossola con la maglia del Carpi non ho nemmeno esultato dopo aver segnato il rigore. Mi hanno contestato anche quello, il fatto che lo avessi battuto io invece di un qualsiasi altro mio compagno, ma era una cosa che facevo abitualmente. I rigori, in fondo, li ho sempre battuti, e noi venivamo da due rigori sbagliati, così ho deciso di prendermi io la responsabilità”. 

A Varese incontri un gruppo che più volte hai definito “unico”, reso tale anche grazie all’operato di mister Sannino. Che rapporto avevi con lui?
“Semplicemente stupendo. Quello con il mister è uno di quegli amori che nascono dalla prima litigata, come quando fai “a botte” con qualcuno e poi diventa il tuo migliore amico. Ci siamo scontrati prima della partita con la Triestina, lui ha abbandonato il campo di allenamento per quella che era una normale divergenza di vedute. Lui preferiva che in una determinata occasione scattassi in avanti, mentre per me era più importate rimanere sull’uomo. Alla fine era anche normale, siamo due caratteri “sanguigni” e da un battibecco innocente è successo tutto questo. Sui giornali, poi, è passato il messaggio che fosse tutto preparato per “svegliare la squadra”, tanto che nella partita successiva abbiamo vinto 5-0, ma la realtà è che da lì è nato un amore che dura ancora adesso“.

Il tuo esordio con la maglia biancorossa arriva già ad agosto, nel derby di Coppa Italia contro il Como. Usando un eufemismo, possiamo dire che non è stata una brutta partita da cui iniziare?
“Vero, è stata una bella partita, che tra l’altro abbiamo giocato sotto un vero e proprio “diluvio universale” e vinta 3-1 con gol di testa. È stato un bell’esordio, ma non l’ho sentita in maniera particolare perché ancora non avevo capito bene cosa volesse dire giocare un derby contro il Como. Diciamo che se dovessi scegliere, ti direi di aver vissuto molto più intensamente la partita all’esordio contro il Novara”.

Sicuramente, però, avrai sentito in maniera importante anche la doppia sfida ai playoff contro il Padova.
“Purtroppo sì e me la sogno ancora perché sono convinto che, se avessimo passato la semifinale, saremmo andati in Serie A facilmente. Eravamo la bestia nera del Novara, ma prima abbiamo trovato un Padova formidabile, con El Shaarawy capace di realizzare due gol incredibli. Nessuno può togliermi dalla testa, però, che se dovessimo rigiocare quella partita dieci volte, la vinceremmo nove”. 

C’è qualcosa che cambieresti di quella partita, o qualche errore che, a livello personale, ti rimproveri di aver commesso? 
“Purtroppo mi rimprovererò sempre il fatto che, sul 3-2, dopo aver fatto un bell’intervento in scivolata lungo l’out laterale ho perso qualche frazione di secondo ad incitare i tifosi in tribuna. Proprio in quegli attimi, però, il Padova ha battuto la rimessa laterale e la palla mi è passata sopra la nuca. Se non avessi caricato i tifosi e se fossi partito un secondo prima quella palla l’avrei respinta di testa”.

Nel 2011, arrivi finalmente nel gradino più alto del calcio italiano. È il Siena, guidato sempre da mister Sannino, a concederti questa opportunità. E’ stato proprio il mister a volerti con lui anche in toscana?
“Sì, è stato lui a volermi fortemente. Io, allora, ero ancora legato al Varese. Dopo un colloquio con il direttore Montemurro, gli dissi che nonostante avessi almeno dieci squadre in B che mi cercavano, io sarei rimasto con loro e me ne sarei andato solo ed esclusivamente in caso di chiamata dalla Serie A, e loro mi avrebbero dovuto lasciare andare. E così, quando l’ultimo giorno di mercato mi ha chiamato Perinetti per dirmi che stavano trattando per portarmi a Siena, ho accettato la proposta e ho ringraziato il presidente Rosati per aver mantenuto la parola. E poi, è stata una soluzione che ha accontentato tutto, anche perché la società ha incassato circa mezzo milione di euro dalla mia cessione”. 

Puoi descrivermi che impatto hai avuto con la massima serie?
“Non è stato semplice. Sono dell’idea che, se un giocatore è bravo, con il passare degli anni impara a giocare in tutte le categorie. Io, però, a 30 anni ero un giocatore esperto ma non prontissimo per la categoria. Il mister mi ha fatto fare un numero giusto di partite e mi ha dato tanto spazio in Coppa Italia dove siamo arrivati fino in semifinale. Comunque, ringrazierò sempre Sannino per avermi dato quel tipo di possibilità, perché arrivare a 30 anni in Serie A non è da tutti”.

Passato il caso calcioscommesse, nell’estate del 2013 ti trasferisci a Carpi. Come ti sei trovato in Emilia?
“È stata un’annata davvero bella, in cui la squadra ha messo le basi per costruire qualcosa di importante negli anni a venire. In rosa avevamo tutti ragazzi di qualità e se non sono rimasto è stato solo perché mi avevano fatto un’offerta per due/tre anni a Pescara che, data la mia età, non potevo assolutamente sottovalutare. Sicuramente non è stata una cosa che il direttore Giuntoli ha apprezzato particolarmente, anche perché a Carpi avevo un ottimo contratto, e credo sia stato in quel momento che si è rotto qualcosa”.

Alla guida dei biancorossi, però, trovi mister Pillon, che affiancherai anche a Pescara nel tuo nuovo ruolo di vice. Possiamo dire che è stato proprio in Emilia che hai iniziato a porre le basi per il tuo futuro da allenatore?
“A Pescara avevo già iniziato il mio percorso da allenatore con le giovanili. Appena arrivato, ho fatto una chiamata di “cortesia” a mister Pillon, ci tenevo a salutarlo e alla fine abbiamo parlato del più e del meno. Mi ha fatto tante domande sull’ambiente che avrebbe trovato in Abruzzo, dato che io lo conoscevo bene, e mi sono reso conto che sarebbe arrivato senza un vice. Così gli ho detto che, in caso di bisogno, non si sarebbe dovuto fare problemi nel cercarmi, nonostante stessi allenando l’under 16”. 

Peccato, però, per la promozione sfumata ai playoff. Il vostro Pescara, nella stagione 18/19, aveva terminato con un ottimo quarto posto ma, nonostante tutto, il tuo è stato un bell’inizio. Possibile che, dopo Pillon, nessun altro ti ha cercato per un incarico simile?
“Eh sì, anche perché dopo quella stagione il presidente non ha riconfermato nessun membro dello staff tecnico. Io, in realtà, ero legato più al Pescara che a Pillon dato che, come ho detto prima, ero andato a fargli da vice semplicemente per aiutarlo. Da quel momento, però, non ho più ricevuto nessuna proposta da parte della società che è completamente sparita. Mi hanno detto espressamente che per me non ci sarebbe stato più posto nelle giovanili e che i membri dello staff della prima squadra sarebbero stati scelti direttamente dal nuovo mister. Su questo, però, non me la sono presa più di tanto: sono cose che, alla fine, fanno parte del calcio”.

E lo stesso mister? Non ti ha mai cercato per portarti con sé in altre squadre?
“L’ho aspettato per tanto, ci siamo tenuti in contatto per diverso tempo e, saputo che aveva accettato la panchina del Cosenza, l’ho chiamato per sapere se gli servisse ancora il mio aiuto. Lui, però, aveva già riconfermato il vecchio staff dei calabresi e la stessa cosa è accaduta a Trieste, dove si è portato il suo vice storico. Ti dico la verità, ogni scelta è legittima e non sono nella condizione di poter sindacare, però credo che un minimo di riconoscenza in più o almeno una chiamata per dirmi chiaramente quale fosse la situazione, me la sarei aspettata. La mia idea è sempre stata la stessa, voglio iniziare ad allenare da solo e sto studiando per poterlo fare, ma per quello che è successo ci sono rimasto un po’ male lo stesso, anche perché credo che, insieme, abbiamo fatto un bel lavoro di staff”.

In chiusura. Che progetti hai per il futuro? So che hai aperto una scuola di tecnica individuale, ma credo che i tuoi obiettivi siano altri.
“La mia idea è quella di allenare, senza volermi precludere nulla. Allenerei sia nel settore giovanile, magari guidando ragazzi di una fascia leggermente più alta di quelli che ho allenato fino ad ora, che in prima squadra. Nel frattempo, però, mi sono riorganizzato e ho avviato un progetto che avevo in mente da diverso tempo. Con l’Accademy che ho aperto, abbiamo già raggiunto degli ottimi risultati, sotto tutti i punti di vista e con i ragazzi ci stiamo togliendo davvero tante soddisfazioni. La prospettiva, però, rimane sempre quella di sedermi, il prima possibile, sulla panchina di un club”.

Gabriele Rocchi

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