Dal “Vidimo se kasnije” al “Herzlich willkommen” è davvero un attimo. Cioè (per i meno poliglotti), dall’arrivederci in croato al benvenuto in tedesco passa giusto il tempo intercorso tra la fine del rapporto con la Pro Patria (8 giugno) e la firma con il SudTirol (14). Sei giorni a fare da cerniera tra la catartica esperienza biancoblu e la nuova avventura bolzanina. Un cambio di scena che Ivan Javorcic ha vissuto provando a non farsi travolgere dai sentimenti.
Lo ammetto. Non è stato facile. Tutt’altro. Ma è stata una scelta molto ponderata. Anche a livello familiare. Diversamente, non l’avrei fatta”. Aspettando l’ufficialità del nuovo inquilino della panca bustocca, la nostalgia per l’ultimo affittuario è musicalmente canaglia. Ma lo spalatino ha statura professionale per non cedere alla mozione degli affetti. Facendo leva sulle 156 gare da guida tecnica tigrotta. Numeri da podio storico del club.                           

Da allenatore “da pronto soccorso” (etichetta auto attribuita al battesimo dello “Speroni”), a tecnico cui un club ambizioso e strutturato come il SudTirol affida un progetto biennale con opzione di rinnovo per la terza stagione. E’ cambiato lei o semplicemente la percezione che si ha di lei?
“Credo sia cambiata la percezione. Quello status era figlio delle opportunità. E devo confessare che per istinto e vissuto, mi sono trovato a mio agio in situazioni difficili, se non disperate. Nel frattempo mi sono formato. Ho dovuto lavorarci. E oggi penso di essere pronto per progettualità e visioni differenti”.

Sandro Turotti ha definito quella altoatesina “una tappa intermedia della sua carriera”. Condivide?
“Ritengo rappresenti una giusta dimensione nella mia crescita. Frutto di una ricerca di miglioramento. Altre soluzioni di cui si è parlato anche in Serie B sarebbero state delle forzature. Più una questione di immagine. Ma non in linea con il mio percorso. E poi devo confessare che con il DS Bravo c’è un bel rapporto da tempo. C’era stata una possibilità anche dopo il primo anno di C. Ma non era il momento giusto”.

Sempre il Direttore ha sottolineato come in 4 anni tra voi non ci sia mai stato uno screzio. Provocazione. Non pensa che qualche confronto robusto avrebbe giovato al rapporto?  
“E’ vero. Spesso ci abbiamo anche scherzato sopra. Tra noi c’è un feeling profondo. Una connessione inconscia. Una cosa rarissima nel nostro mondo. E forse il segreto del lavoro che è stato fatto. L’ho sempre detto. Turotti è un fuoriclasse, un professionista di altra categoria. Ma a Busto ho trovato tante figure di grandissimo spessore. Cito Nicolò Ramella e Beppe Gonnella. Ma la lista sarebbe lunghissima”.

In un mondo di primedonne, la prima donna biancoblu, Patrizia Testa, ha mantenuto una discrezione e un profilo molto rispettosi. Il vertice ideale?  
“La presidente è sempre molto abile nel trovare la giusta posizione. Bravissima nell’evitare di concentrare tutto su di sé ed alimentare il proprio ego. Nel calcio di solito è il contrario”.   

Cosa lascia alla Pro Patria?
“Sul piano tecnico, il lavoro fatto su tanti giovani del territorio. Penso a Ghioldi e Molinari che per radicamento sono un po’ il simbolo del club. Sul piano umano, mi piace sottolineare la crescita anche fuori dal campo di ragazzi come Le Noci, Fietta, Colombo. Identificano una maturità che è di esempio e trascina tutto il gruppo”.     

C’è un sogno che alla Pro Patria è rimasto nel cassetto? 
“La verità? Il mio sogno sarebbe stato quello di avere la possibilità di fare un miracolo vero e proprio. Magari con più risorse. Alludo al salto di categoria. Mi sarebbe piaciuto fare il botto a Busto. Ma la realtà merita rispetto. E i sogni vanno tenuti a parte”. 

A proposito di sogni realizzati. Quello delle strutture. Purtroppo non a Busto ma a Bolzano…
“Lo ritengo una parte essenziale. Ho sofferto di questo anche se ho sempre supportato la pratica con rispetto. In Italia c’è poca cultura su questo aspetto. Non si capisce come gli impianti oltre ad avere un valore tecnico rappresentino anche aggregazione e identità. La Pro Patria merita una casa più accogliente”.

Nei suoi 3 anni in C ha battuto tutte le promosse. Entella, Pisa, Monza (in Coppa Italia), Como e da ieri anche l’Alessandria. Un record invidiabile! 
“Ci pensavo guardando la finale. Evidentemente era scritto che dovesse andare così”. 

Gatti in un anno con Javorcic è passato dai dilettanti alla Serie B. Pensa che gli allenatori dovrebbero essere più gratificati per la capacità di migliorare il materiale umano a disposizione? 
“Per fare l’allenatore bisogna essere un po’ pazzi. Per via delle grandi responsabilità che derivano dal ruolo. Ma se c’è una cosa che rende unico, speciale il nostro mestiere è poter migliorare le persone. Una cosa che alimenta le motivazioni. Ma in questo senso la nostra categoria non ha molto potere. Nel nostro ambiente c’è scarso riconoscimento per la competenza. E non parlo ovviamente della Pro Patria ma in generale”. 

In tema di pazzia, El Loco Bielsa l’altra settimana ha allenato gli under 11 del Leeds. Scelta romantica o preciso disegno tecnico? 
“Bisogna saper aggregare. Mettersi al servizio della comunità di cui si fa parte. Forse in questo momento lui è il più grande allenatore in circolazione. Certamente quello dal pensiero più profondo. Non per i risultati ma per la cultura etica, per la capacità di essere punto di riferimento e di dare. Ecco, lui dà. Non è banale”.  

Addio alla Pro Patria empatico ma molto stringato. Altri avrebbero scelto vie più plateali…
“Ho fatto tutto con estrema naturalezza e intimità. Era quello che sentivo. Ammetto di aver provato grande difficoltà nel farlo. Sento la vicinanza della gente. Un legame autentico, non forzato. E’ vero, qualcuno avrebbe scritto lettere strazianti o fatto foto con sciarpe. Non è il mio modo di essere. Come ho detto, mi sento profondamente figlio della Pro Patria. Ma i tifosi sono più grandi di me. A Busto ci sono famiglie tigrotte da generazioni. E’ giusto stare un passo dietro a loro”. 

Se accetta la metafora motoristica, quando è arrivato alla Pro Patria serviva un ingegnere. Forse al SudTirol ora cercano un pilota?            
“Penso sia una buona chiave di lettura. Non c’è un telaio da costruire ma una macchina da guidare. Cercando di lavorare sulle piccole cose che fanno la differenza”. 

Passa da un club ultracentenario ad una società di fatto ventennale. Almeno per quanto riguarda la sede a Bolzano. Il recordman di presenze (Fink) gioca ancora, il miglior marcatore (Fischnaller) idem. Sembra di fare tutto per la prima volta. Come nella Macondo di “Cent’anni di solitudine”…
“Realismo magico? Per certi versi sì. Ma c’è anche un profondo senso di appartenenza. Con giocatori che identificano la squadra come Tait. In fondo è quello che cercavo. Dopo la Pro Patria un altro club con un’identità forte”.

L’unico consiglio (mutuato dal suo mentore) che Dan Peterson dà ad un allenatore alle prime armi è: “Fatti amico il custode della palestra. Col tempo capirai perché”. Saggia regola professionale?  
“Si dice che Mourinho all’Inter conoscesse per nome tutti i dipendenti della Pinetina. E’ un approccio fondamentale se vuoi essere un leader. Bisogna coltivare le relazioni. E dare un’idea unica di squadra. Anche agli shadow men, gli uomini che lavorano nell’ombra. La prima persona che ho conosciuto a Bolzano è stata il magazziniere”.

La prossima con la Pro Patria sarà da avversario. Ci ha già pensato?
“Sì, e so che sarà difficile. Un po’ come tornare a casa. Ci sarà il rischio di sbagliare spogliatoio…”.  

Giovanni Castiglioni

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