Un giocatore che non ha bisogno di presentazioni, una bandiera di una squadra come il Varese dei record che ha fatto sognare davvero tutti ma che, allo stesso tempo, è dovuta partire dalle categorie più basse del calcio italiano prima di poter tornare a pensare in grande. Parliamo di Gianpietro Zecchin, ragazzo classe ’83 con un unico sogno nel cassetto: quello di fare il calciatore, con tanta determinazione e anche un pizzico di coraggio, quanto basta per prendere la decisione di allontanarsi da casa ancora giovanissimo e avventurarsi verso il Trentino, destinazione Südtirol.
Tante le avventure per lui, costellate da una serie di infortuni che, sicuramente, non gli hanno permesso di arrivare ancora più in alto, nonostante mister Zecchin si sia tolto davvero tante soddisfazioni nel corso della sua carriera. Ebbene sì, ormai bisogna chiamarlo mister dato che, una volta appesi gli scarpini al chiodo, non ha esitato ad accettare la proposta del Mestre, ultima squadra con cui ha militato da calciatore, che gli ha offerto la possibilità di avventurarsi, di nuovo, in un mondo tutto da scoprire, in cui si è calato subito alla perfezione. 

Iniziamo parlando delle primissime fasi della tua vita. Da bambino hai provato un po’ tutti gli sport, dal baseball al minigolf, ma alla fine è stato il calcio che ti ha permesso di toglierti delle belle soddisfazioni. C’è un momento in particolare in cui hai capito che questa potesse essere realmente la tua strada?
“Quella per il calcio è una passione che nasce da piccolo, ma non saprei dire cosa mi ha portato a tutto questo. Mi piaceva vedere le partite, quello sì, ma credo che sia una cosa comune un po’ a tutti i bambini. Poi, una volta raggiunti i 6/7 anni, ho iniziato ad allenarmi con la squadra del mio paese, ma anche quando ero a casa dovevo inventarmi dei modi per passare il tempo, dato che non avevamo tutta la tecnologia di oggi. Poi, è vero, con gli amici abbiamo giocato a un po’ tutto, ma diciamo che sono questi i momenti mi hanno avvicinato allo sport. Mi ripetevano che fossi portato ma, da piccolo, non sempre riesci a renderti conto di quelle che sono le tue reali capacità. Ho iniziato a fare provini sin da subito, nonostante nessuno dei miei genitori fosse un grande esperto di calcio”. 

Alla fine, però, sei riuscito ad entrare nelle giovanili del Padova. Come è andata? Sei rimasto molto legato ad Alberto Piva, il tuo primo allenatore.
“È stata un’esperienza bellissima, negli anni delle giovanili sono stato davvero bene con loro. Ti confesso che mi volevano anche altre squadre oltre il Padova, ma alla fine sono contento di quella che è stata la mia scelta. Per quanto riguarda Piva, l’ho avuto come allenatore da quando avevo 10 anni, ma ancora oggi, di tanto in tanto, ci sentiamo e ci divertiamo a parlare del passato”. 

Già da ragazzo hai sofferto di qualche problema fisico di troppo, tra cui un infortunio al legamento della caviglia destra. Hai mai avuto, anche solo per un momento, la voglia di lasciare il calcio e pensare ad una vita completamente diversa?
“Da giovane sicuramente no, ho sempre creduto in questo sogno ed ero determinato nel volerci provare fino in fondo. Poi, se devo essere sincero, quando ho iniziato a giocare tra i professionisti c’è stato un periodo in cui mi stavo “annoiando”. Parliamo dei tempi della mia militanza nel Padova, e avevo un allenatore con cui le cose non stavano andando benissimo. Sicuramente per un ragazzo non è facile superare dei momenti difficili, probabilmente ho avuto anche io delle fragilità di troppo, ma alla fine, quando c’è la passione, si riesce ad affrontare davvero di tutto”.

Hai parlato, giustamente, della tua forte determinazione. Nel 2001 hai ricevuto la chiamata del Südtirol, che ai tempi militava in C2. Era davvero un’occasione da non perdere? O sentivi poca fiducia da parte del Padova?
“Sinceramente ti dico che, da giovane, non avrei mai pensato di fare questo tipo di carriera. A quei tempi lavoravo anche al di fuori del mondo del calcio, aiutavo la mia famiglia e davo una mano a mio zio nel portare avanti la sua attività. Quando è arrivata la chiamata di Mauro Gibellini, il direttore del Südtirol, non potevo minimamente immaginare a cosa sarei andato incontro, ma sono partito lo stesso. A loro interessavo perché, da regolamento, doveva giocare obbligatoriamente un classe ’83, ma in ogni caso quella è stata, di fatto, l’esperienza da cui è partita tutta la mia carriera. Devo ringraziare anche i miei genitori per avermi lasciato prendere determinate decisioni senza interferire più di tanto. Non era scontato, ma ho sempre avuto sostegno da parte loro”.

In Alto Adige hai incontrato Attilio Tesser. Che rapporto hai avuto con lui?
“Di Tesser ho un ottimo ricordo, non posso che parlarne bene. Anche perché, sia da lui che da altri mister come Sannino, Mandorlini, Maran e Pioli, ho imparato davvero tanto per quella che è la mia nuova avventura da allenatore”. 

Possiamo dire che il Südtirol, in quegli anni, aveva una squadra importante per la categoria, capace di raggiungere per ben due volte i playoff e costretta a fermarsi, nell’ultima occasione, soltanto ad un gol di distanza dal sogno promozione. Hai qualche rammarico per come è andata a finire?
“Sicuramente sì, a partire dalla stagione 2001/02 quando siamo stati ad un passo dalla qualificazione nella finale playoff, poi persa a causa della sconfitta contro il Brescello. Finale che, in ogni caso, abbiamo raggiunto l’anno successivo, quando ci sarebbe bastato vincere una delle due gare contro il Novara per poter finalmente approdare in C1. Peccato aver pareggiato in entrambe le occasioni, ci è mancato davvero poco ma, si sa, il calcio è anche questo”. 

Nell’estate del 2003, però, torni proprio in quel Padova che, appena due anni prima, ti aveva lasciato andare in Alto Adige. Possiamo considerarla come una sorta di rivincita personale da parte tua?
“In quegli anni il Padova aveva uno squadrone, c’era gente come Centofanti, Bergamo e Ginestra. Erano tutti calciatori molto forti ed io, in fondo, ero poco più che un ragazzo. Non so perché avessero fatto quella scelta due anni prima, non ricordo e non mi interessa sapere cosa ci sia dietro certe dinamiche. Personalmente ritengo che l’importante sia dimostrare e dare il massimo nelle occasioni che la vita ti mette davanti. Evidentemente avevano i loro motivi per prendere determinate decisioni”. 

Hai un ricordo particolare dei tuoi anni a Padova? 
“Sono stato a Padova per circa metà della mia vita, tra giovanili e prima squadra, e di ricordi belli ne ho davvero tanti. Mi dispiace solo essermi lasciato male con i tifosi, è una cosa che non avrei mai pensato che potesse accadere. In quegli anni mi cercava il Grosseto in Serie B e io avevo espresso la volontà di andare in cadetteria nel caso fosse arrivata un’offerta importante. Purtroppo sono state messe in giro voci non veritiere, dato che io, a Padova, sarei rimasto molto volentieri, ma ovviamente avevo l’ambizione di fare un passo in avanti. Ti dico solo che, prima di trasferirmi in Toscana, avevo firmato un rinnovo con il Padova per altri 3 anni, e credo che questo possa spiegare quali fossero le mie reali intenzioni”. 

Hai parlato, appunto, di Grosseto. Come è stata la prima esperienza in B? Avevi fatto bene nelle precedenti avventure tra i professionisti, ma la cadetteria è decisamente un altro mondo.
“Sì, sicuramente è un altro mondo, ma non sono riuscito a viverlo al meglio. In quel periodo ho sofferto per altri problemi legati a stiramenti muscolari in zone dove, in precedenza, non avevo mai avuto nulla. Sicuramente i carichi di lavoro con Pioli erano diversi e questo mi ha creato qualche problema, ma sono riuscito comunque a fare 21 presenze, nonostante in rosa ci fossero giocatori molto importanti”. 

In quel Grosseto c’era anche Bressan, portiere che ritroverai a Varese qualche anno dopo. Che rapporti avevi con lui?
“Con Walter siamo davvero molto amici, ci siamo conosciuti allora ma ci sentiamo ancora adesso. Siamo molto legati, e possiamo dire che l’amicizia l’abbiamo coltivata per bene anche a Varese”.

Nonostante ti sia tolto più di qualche soddisfazione in Serie B, l’anno successivo ti trasferisci a Ravenna. Una volta raggiunta la cadetteria, perché scendere di nuovo di categoria? Non c’erano squadre, anche di bassa Serie B, che ti cercavano?
“Che io sappia no, non c’erano offerte dalla B. Ricordo che mister Gustinetti mi voleva con lui a Grosseto anche l’anno successivo e infatti ho fatto tutto il ritiro con loro. A tre giorni dalla fine del mercato, però, mi hanno detto che era meglio se fossi riuscito a trovarmi un’altra sistemazione, altrimenti sarei potuto finire fuori lista. A quel punto non ho più pensato alla categoria, il mio interesse era continuare a giocare. Evidentemente non ero ancora pronto per la Serie B”.

Nella stagione 2009 ti trasferisci a Varese. Puoi raccontarci come è nata la trattativa che ti ha portato in Lombardia?
“Mi ha voluto Sogliano, anche se quell’anno avevo fatto di nuovo il ritiro a Grosseto. Venivamo dai playoff persi contro il Livorno, e alla fine del ritiro si era verificata la stessa identica situazione dell’anno precedente. A quel punto ho preferito cambiare definitivamente aria, e così sono arrivato a Varese dove ho trovato un ambiente pieno di entusiasmo. Devo ringraziare due persone in particolare, che sono state fondamentali per la mia crescita, ovvero Sannino e Sogliano. Venivo da un altro infortunio, loro erano un gruppo amalgamato e ho avuto qualche difficoltà ad ambientarmi, ma sono stati pazienti e mi hanno aspettato. Penso di aver ripagato a pieno la loro fiducia”. 

Tra l’altro, nella prima stagione a Varese hai segnato 5 gol, ma credo che ce ne sia uno, tra tutti, che ti è rimasto particolarmente impresso. Parliamo di quello del 23 maggio 2010, quando a Benevento va in scena la semifinale di andata dei playoff di Lega Pro e tu segni la rete del momentaneo 1-2 per il Varese. Che ricordi hai di quella partita?
“Il Benevento era una squadra molto attrezzata, erano partiti per vincere il campionato ma si sono ritrovati a fare i playoff con noi. Avevano dei valori importanti, ma anche noi potevamo dire la nostra, e alla fine si sono visti i risultati. In quella partita ho fatto sia un gol che un assist per Ebagua, poi loro hanno pareggiato ma al ritorno li abbiamo battuti per 2-1”. 

Così sei tornato in Serie B a 3 anni di distanza dall’ultima apparizione. Non avevi paura di non riuscire a mantenere, per l’ennesima volta, la categoria? Eri in prestito dal Grosseto e la società ti aveva già parlato di un eventuale riscatto?
“No, di riscatto non se ne era mai parlato durante la stagione, io ho semplicemente fatto il mio. Poi, a fine campionato, la società ha deciso di riscattarmi e hanno trovato un accordo con il Grosseto. Diciamo che è stato anche un importante attestato di stima per il lavoro svolto durante l’anno”. 

I primi anni del Varese in B sono stati incredibili, nonostante ci fossero squadre che, sulla carta, sembravano avere valori tecnici superiori ai vostri. Qual era il segreto di quella squadra?
“Sicuramente il gruppo. Avevamo una base importante, c’erano giocatori come Corti, Neto Pereira, Camisa, Claiton, Carrozza, Buzzegoli, Ebagua e tanti altri che sicuramente sto dimenticando. La squadra era davvero forte e anche i nuovi riuscivano a calarsi bene nel contesto che si era venuto a creare”. 

Peccato, però, per la finale persa contro la Sampdoria.
“Davvero, è stato un grande dispiacere, ma tutto il percorso è stato pieno di emozioni. Eravamo partiti con Carbone, giocavamo bene ma non riuscivamo ad ottenere risultati. Con il cambio di allenatore e l’arrivo di Maran abbiamo avuto quella spinta in più che ci ha permesso di arrivare fino in fondo. Non so cosa sia cambiato di preciso, ma ricordo con piacere l’arrivo del mister. Ci avevamo creduto, ma singolarmente loro erano più forti, e penso che, alla fine, le loro qualità siano emerse tutte. Ripeto è stato un peccato, anche perché già ci era andata male l’anno prima contro il Padova. In quel caso, però, eravamo indisponibili in parecchi, io in primis, ancora fermo per la pubalgia. Dispiace davvero, al ritorno avevamo fatto anche un partitone, avevamo dato tutto, ma loro avevano El Shaarawy che li ha tirati fuori da una situazione difficile”. 

Nella stagione 2012-2013, però, il percorso si rivela più difficile del previsto. Si era rotto qualcosa dopo la finale? O la società stava pensando di ripartire con un nuovo ciclo?
“Non so sinceramente. Mister Maran era andato a Catania e penso che se lo meritasse. Noi con Castori abbiamo fatto bene all’inizio, prima di alternare un periodo tra alti e bassi. Alla fine non è andata nemmeno così male, siamo arrivati ad un soffio dai playoff, ma ogni anno ha un po’ la sua storia”.

In un’altra intervista, Bastianoni ci ha raccontato che, dopo l’avvicendamento in società tra il presidente Rosati e Laurenza, iniziavano ad esserci dei sentori che la situazione, a livello economico, non fosse così rosea come vi prospettavano. Hai avuto anche tu le stesse sensazioni?
“Nonostante parecchie persone parlassero in un certo modo del presidente Rosati, con lui le cose hanno sempre funzionato alla perfezione. I problemi sono realmente iniziati dopo l’arrivo di Laurenza, dato che già al primo anno della sua presidenza si era visto che qualcosa non stava funzionando. Non sta a me dire cosa non andasse, però posso garantire che si è vista tutta l’incapacità di chi avevano messo a gestire quella situazione. Hanno fatto sempre tante chiacchiere, sembrava che dovessero “spaccare il mondo” e invece sono state le persone peggiori che abbia mai incontrato alla guida di un club. L’unica persona che ho davvero stimato in quella società è stato il direttore Ambrosetti, mentre gli altri ne hanno fatte di tutti i colori”. 

Ma anche tu, da calciatore, come l’hai vissuta? Eri la bandiera di una squadra che, pochi anni prima, stava per raggiungere il sogno Serie A, ma che poi è crollata quasi all’improvviso. A livello psicologico, non deve essere facile affrontare una situazione del genere. 
“L’ho vissuta davvero male, perché se fino a qualche anno prima venivi considerato in un certo modo, di punto in bianco cambia tutto, con voci spiacevoli che iniziano a circolare anche da parte dei tifosi. La squadra, di sicuro, ce l’ha messa sempre tutta. Anche quando ci siamo salvati ai playout, con Pavoletti che ci ha dato sicuramente una grande mano, la squadra si è sempre impegnata al massimo e i meriti vanno dati a tutti, dato che, nonostante stimi molto Leonardo, un giocatore da solo non può decidere un intero campionato”. 

A gennaio del 2015, vista la situazione difficile del Varese, molti calciatori decidono di andare via e provano a trovarsi una nuova sistemazione, mentre tu sei uno dei pochi che è rimasto fino alla fine. Possiamo dire che è stato un segno tangibile del profondo legame che hai con questa squadra e a questo territorio?
“Qualche richiesta ti confesso che l’ho avuta anche io, anche se avevo qualche problema fisico che mi stava condizionando. Sicuramente sì, il forte senso di appartenenza che avevo verso quei colori mi ha fatto rimanere a Varese, oltre al fatto che non volevo far spostare i miei bambini e la mia famiglia. Potevo trovare altre soluzioni, ma non era un discorso che mi interessava. Il presidente, poi, continuava a dirci che lui non aveva problemi e che gli stipendi sarebbero arrivati regolarmente. A gennaio, invece, sono spariti tutti e, a posteriori, però, posso dire di essermi pentito della scelta fatta. Se solo avessi saputo di preciso come sarebbero andate a finire le cose, sarei andato via di corsa”.

Finita l’esperienza a Varese, decidi di rimetterti in gioco, per l’ennesima volta, ripartendo dalla Serie D, destinazioni Campodarsego prima e Mestre poi. Cosa ti ha spinto a riniziare tutto all’età di 31 anni?
“Secondo me avevo ancora l’età per giocare a calcio, a 31 anni potevo ancora far bene. Poi gli infortuni mi hanno un po’ condizionato e al Campodarsego ho fatto davvero fatica perché non stavo bene fisicamente, nonostante loro avessero fatto un campionato meraviglioso. A Mestre, invece, mi sono tolto belle soddisfazioni, sia da giocatore, con la promozione in C, sia da allenatore, con la vittoria dell’Eccellenza nel 2018”.

L’ultimissima. Quando hai iniziato a maturare l’idea di poter diventare allenatore?
“Sicuramente non negli ultimi anni di attività da calciatore, dato che le due stagioni sono state le migliori di tutta la mia carriera, sia per l’ambiente che per i rapporti che avevo con la società. Poi, di punto in bianco, è arrivata la chiamata del presidente del Mestre che mi chiedeva di diventare il loro allenatore, anche se stavo già cercando squadra in Eccellenza. Avendo preso il patentino due anni prima, ci ho dovuto pensare solo un paio d’ore prima di capire che fosse arrivato il momento di dire basta. Come ero partito di punto in bianco, da calciatore, per andare all’Alto Adige, così ho fatto anche da allenatore con il Mestre. Di sicuro, però, ora bisogna lavorare duro, rimanendo con i piedi per terra e cambiando alcuni atteggiamenti, come la troppa foga che ho durante le partite”.

Gabriele Rocchi

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