In fondo è normale, e logico, che Giorgio Lepori ricordando i suoi brillantissimi trascorsi cestistici parli di “stagioni del cuore”. E normale perchè il dottor Giorgio Lepori, uno dei migliori cardiologi in circolazione, quando tira in ballo il cuore merita di essere ascoltato. Sia quando argomenta del cuore, quello vero. Sia quando, in un misto tra serietà, leggerezza, affetto, delicata malinconia e vibrante passione, ti parla, metaforicamente, del cuore che a forma di spicchi arancioni di cuoio batteva nel petto dei ragazzi che componevano la mitica squadra “Ignis 1956”.

Un gruppo che, forse non tutti lo sanno, è stato il primo targato Pallacanestro Varese a conquistare uno scudetto giovanile. Un gruppo dal quale sono usciti ben cinque giocatori poi protagonisti in serie A – i compianti Sergio Rizzi e Alberto Mottini; Maurizio Gualco, Enzo Carraria e Mauro Salvaneschi -, altri tre – Fredy Bessi, Franco Martinoni e, appunto, il nostro Lepori -, che per tanti anni sono stati ottimi interpreti in serie B, e, infine, altri ragazzi che in seguito hanno recitato ruoli di rilievo nelle minori varesine. 
In quella squadra, che noi “campesinos” della provincia ammiravamo senza se e senza ma, Giorgio Lepori rappresentava l’elemento equilibratore. La rotella indispensabile per far girare a dovere tutto il meccanismo. Giorgio infatti, giocatore dotato di grandissima eleganza e pulizia tecnica, si poneva in maniera efficacissima tra l’estro e la fantasia di Bessi, la classe innata di Gualco e Mottini, l’esuberanza atletica di Salvaneschi, la fisicità del terzetto  Rizzi-Carraria-Martinoni e l’energia profusa da Collitorti, Bombelli, Civitelli e Marangotto.

Insomma, una nidiata a dir poco eccezionale.
“Un gruppo – conferma Lepori – costruito pian piano grazie al buon lavoro svolto in fase di reclutamento dai dirigenti, e cresciuto benissimo in palestra seguendo le indicazioni e i dettami ricevuti da allenatori importanti come Bruno Brumana, Carlo Colombo, Guido Foglio Para, Franco Passera e Dodo Rusconi, che ovviamente cito in ordine alfabetico. Un gruppo, però, ci tengo a sottolineare questo aspetto, maturato all’insegna di elementi allora imprescindibili quali il divertimento, la passione e l’amore per la pallacanestro e, più di tutto, il desiderio di fare sport e stare insieme. Tutti aspetti che oggi, da quello che sento dire, sono stati “leggermente” dimenticati o sottovalutati. Per noi invece erano molle fondamentali. Dopo la mattinata trascorsa a scuola passavamo tutto il resto della giornata insieme seguendo un “rito” pressoché immutabile: ritrovo all’oratorio o al campetto, poi ore e ore passate a chiacchierare, fare gare di tiro, praticare qualsiasi sport possibile e immaginabile. Poi trasferimento in massa all’allenamento quotidiano e, a conclusione della giornata, ritorno a casa la sera. Sette giorni su sette. Ed è chiaro che vivendo sempre insieme è più facile, e bello, consolidare valori come l’amicizia, l’affetto, il rispetto reciproco, la solidarietà tra pari. Non a caso con quel gruppo di ragazzini nato sotto i tabelloni di legno nella palestrina di via Rainoldi ci si ritrova ancora adesso all’insegna di un rapporto profondo che il passare degli anni non ha minimamente scalfito”.

Un gruppo, quello formato dai nati nel ’56-’57-’58, importante anche storicamente, perché conquistando il titolo Cadetti avete piantato in piazza Monte Grappa la prima bandierina tricolore accanto a quelle, già numerose, dell’Ignis dei grandissimi senior.
“Credo che in quegli anni i dirigenti della Pallacanestro Varese realizzarono quanto fosse importante, e prestigioso, costruire un settore giovanile competitivo. Così, accanto ad un eccellente lavoro svolto alla base, quindi nel minibasket e nelle categorie Ragazzi e Allievi, si diedero da fare per migliorare il reclutamento, specialmente in ottica prima squadra. Gli arrivi di due lunghi importanti come Sergione Rizzi dal Celana Bergamo e di Enzo Carraria dal Lavoratori Udine, vanno letti soprattutto in quest’ottica. Detto questo, è giusto rimarcare che, ad eccezione di Mauro Salvaneschi approdato se non ricordo male dal Basket Broni, il nostro  scudettino Cadetti fu conquistato da una squadra autoctona, quasi interamente “Made in Varese””.

Facile arrivare in alto con tre allenatori del calibro di Brumana-Colombo-Rusconi?
“Penso che Bruno, Carlo e Dodo rappresentassero allora, ma credo anche oggi, il meglio in Italia dal punto di vista tecnico e tattico. Bruno e Carlo, nostri allenatori fin dalla categoria Ragazzi, lavoravano con noi per gran parte della settimana, mentre Dodo Rusconi, impegnato con l’Ignis di serie A, svolgeva un compito che potrei definire da supervisore, avendo però importante voce in capitolo. Inoltre Dodo per noi ragazzini era una sorta di idolo perché in lui, Aldino Ossola e Dino Meneghin vedevamo giocatori che nati e cresciuti cestisticamente in città avevano raggiunto il “top” dell’essere giocatori professionisti. Grazie a tutti e tre abbiamo imparato tantissimo anche perché, sotto il profilo caratteriale, erano perfettamente complementari. Rusconi, che giustamente si è sempre dichiarato “figlio tecnico di Aza Nikolic”, aveva nei nostri confronti un approccio risoluto, deciso e molto esigente. A conti fatti e in assoluto mi sembra di poter affermare che il lavoro svolto da questa triade nel corso degli anni abbia prodotto risultati entusiasmanti”. 

Veniamo dunque, anno 1973, a quella meravigliosa tarda primavera a Roseto degli Abruzzi.
“Prima di entrare nel merito, devo una premessa: noi approdiamo a Roseto dopo aver battuto, forse un po’ a sorpresa, il favorito Simmenthal Milano nel concentramento interzonale. Questa vittoria accende qualche riflettore in più sulla nostra squadra, ma in Abruzzo il pronostico della vigilia segnala comunque Virtus Bologna o Forst Cantù come sicure candidate per la vittoria finale. A Roseto ci troviamo in un concentramento insieme ad altre cinque squadre – Virtus Bologna, Basket Roma, Pallacanestro Monopoli, Basket Brindisi, Forst Cantù -, pronti a giocarci il titolo con un atteggiamento che oggi definirei senza mezzi termini un po’ guascone”.

Spiega meglio. Cosa intendi?
“Arriviamo a Roseto leggeri come l’aria, già contenti di essere alle Finali Nazionali, anche se ovviamente non soddisfatti. Questa leggerezza mentale si manifesta chiaramente nei nostri comportamenti fuori dal campo perché, per esempio, mentre tutti i nostri avversari si “ammazzano” con riunioni tecniche, sedute di tiro e allenamenti, noi preferiamo andare al mare, giocare in spiaggia, passeggiare sul lungomare rosetano e cazzeggiare gustando un gelato. Il pensiero dominante è uno solo: divertirsi. Così, senza pressione addosso, la prima giornata affrontiamo e battiamo abbastanza nettamente la Virtus Bologna di Bonamico, Pedrotti, Valenti, Malaguti in una gara che a nostra insaputa si sarebbe poi rivelata come una sorta di finalissima anticipata. Da lì in avanti, infatti, superata la vetta più impegnativa, il nostro cammino sarà tutto in discesa con tre vittorie consecutive contro Monopoli, Roma e Brindisi. Di fatto, complici altri risultati, arriviamo all’ultima giornata con lo scudetto già in tasca e il derby contro Cantù, vinto da Cattini, Negrocusa e soci è solo una formalità. Per noi invece sono 40 minuti di festa continua grande per i quali conservo negli occhi il ricordo della commozione di Giancarlo Gualco. Il general manager della Pallacanestro Varese era due volte felice. La prima come dirigente del club che si apprestava a mettere in bacheca un successo dal fortissimo valore simbolico. La seconda come orgoglioso papà di Maurizio che nel corso del torneo insieme a Mauro Salvaneschi è inserito nel primo quintetto e dà ampio sfoggio delle sue grandissime qualità”.

Tuttavia nei due anni successivi, da juniores, nonostante i roboanti arrivi di Carraria e Rizzi, niente bis: come lo spieghi?
“La mia chiave di lettura è duplice. Da un lato il gruppo, pur essendo decisamente più forte e attrezzato, con gli inserimenti obbligati di Renzo Carraria e Sergio Rizzi aveva perso le sue armi tattiche peculiari e probabilmente determinanti per vincere: imprevedibilità e duttilità. L’Ignis Cadetti non regalava mai punti di riferimento perché schierava sempre giocatori capaci di giocare in tutte le posizioni del campo. Qualche esempio? Maurizio Gualco, 196 c.m, partiva “falso pivot” e finiva spesso playmaker. Salvaneschi era il suo esatto contrario e poteva giocaree spalle a canestro contro chiunque. Fredy Bessi con la palla in mano si portava a spasso tutti i difensori mentre io potevo giocare in cinque ruoli. E così via di questo passo con Martinoni, Collitorti, Bombelli e tutti gli altri. Con Carraria e Rizzi eravamo invece più ortodossi, certamente più ordinati con play, guardia, ala piccola, ala grande e centro tutti al loro posto, ma sicuramente più statici e tatticamente prevedibili. L’altra considerazione è invece legata alla coesione tecnica di un gruppo che durante la settimana, con Sergio e Renzo fissi in serie A, si allena in un modo, mentre per le partite, con loro presenti, è “costretto” a giocare un basket differente. Insomma: una “quadra” difficile da trovare, tant’è vero che nel 1974 alle finali di Reggio Emilia arriviamo solo quarti, mentre nel 1975 nemmeno ci classifichiamo”.

Alla fine del percorso giovanile Renzo Carraria, Mauro Salvaneschi, Sergio Rizzi, Alberto Mottini e Maurizio Gualco volano tutti in serie A, mentre tu, nonostante le ottime referenze prendi un’altra strada. Come mai?
“Finita la carriera nelle giovanili anch’io avevo ricevuto un paio di offerte dalla serie A, ma in verità l’idea di fare il professionista non mi faceva impazzire. Poi, di fronte alla possibilità di frequentare la Facoltà di Medicina di Pavia, che proprio in quell’anno aveva aperto la sua sezione distaccata a Varese, non c’è stata partita: molto, molto più allettante l’idea di diventare medico. Così, optando per una scelta della quale non mi sono mai pentito, ho abbracciato il basket semi-professionistico giocando per tanti anni in serie B alla Pallacanestro Legnano, Omega Bilance Busto, Robur Varese e, dopo la laurea, sul finire della carriera cestistica, ho giocato fino alla consunzione fisica in alcune formazioni di Promozione. Insomma: in definitiva mi sono detto: “Meglio un “bravo dutur” che un approssimativo giocatore di pallacanestro”. E poi, detto tra noi, il ricordo di quell’indimenticabile scudetto e di quegli anni stupendi, i più belli e pieni della mia, anzi, della nostra vita da giocatori, non ce lo toglierà nessuno”.

Massimo Turconi

2 Commenti

  1. Leggere ricordi di pallacanestro vissuta da ragazzi e persone che, a vario tolo hanno operato nella società che per 50 anni, ho avuto l’onore di essere parte integrante come fisioterapista, mi emoziona e mi inorgoglise tantissimo. Grazie di cuore ragazzi, vi abbraccio tutti con grande affetto.
    Sandro Galleani.

  2. Leggere ricordi di pallacanestro vissuta da ragazzi e persone che, a vario tolo hanno operato nella società che per 50 anni, ho avuto l’onore di operare come fisioterapista, mi emoziona e mi inorgoglise tantissimo. Grazie di cuore ragazzi, vi abbraccio tutti con grande affetto.
    Sandro Galleani.

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