Un calciatore giovane, un ragazzo con un sogno ben preciso: arrivare a giocare in Serie A. Sogno che, nel tempo, è riuscito soltanto ad accarezzare, grazie alle due presenze in panchina ai tempi della militanza a Cagliari. Un percorso difficile, fatto di alti e bassi, in cui Mirko Bizzi ha sempre avuto voglia di far vedere il proprio valore scegliendo, allo stesso tempo, i passi da fare nella sua carriera con grande attenzione. Un ragazzo semplice, dal carattere forte ma con le idee ben chiare e, soprattutto, una persona che non ha mai avuto la pretesa di arrivare subito in alto, dando tanta importanza alla famosa gavetta.
Tante le vicende vissute da Bizzi nel corso del tempo, a partire dal fallimento del Monza fino alla difficile avventura a Varese dove, in ogni caso, ha lasciato un pezzo di cuore. E se la vita, al momento, lo ha posto davanti a decisioni importanti, il sogno rimane sempre lo stesso: provare ad arrivare, di nuovo, al vertice del calcio italiano, passando, perché no, ancora una volta dalla società biancorossa. Perché, in fondo, la voglia di riscatto dopo quanto accaduto tre anni fa, è più forte che mai.

Iniziamo parlando delle primissime fasi della tua vita. So che, da bambino, non eri particolarmente amante del calcio. Come mai, alla fine, hai deciso di intraprendere comunque questa strada? 
“Vero, da piccolo ero amante della bicicletta, non mi piaceva molto l’idea di diventare un calciatore. Sono stati i miei compagni di classe a convincermi, e così, all’età di 6 anni, ho iniziato a giocare con la squadra del mio paese. All’inizio, però, non avevo ancora un ruolo ben preciso e mi piaceva stare in tutte le posizioni del campo tranne che in porta. Solo dopo aver sostituito l’estremo difensore in una partita, ho capito che quello poteva diventare il mio ruolo ideale”.

Così, una volta trovata la tua esatta collocazione in campo, ti trasferisci nelle giovanili del Monza. Che ambizioni avevi a quell’età? Essere richiesto da una squadra così importante, doveva rappresentare un sogno per te.
“Proprio così, ero davvero contento di andare a Monza, nella società che, nel tempo, è diventata un po’ la mia seconda famiglia. Con loro ho fatto 5 anni nel settore giovanile, prima di trasferirmi al Milan con cui ho giocato tra Esordienti e Giovanissimi, per poi tornare, di nuovo, con i biancorossi. E poi diciamolo, per uno come me che ha frequentato anche la curva del Monza, ritrovarsi a passare dagli spalti al campo è stata davvero un’emozione enorme. Ho ricordi incredibili di quell’esperienza, peccato solo per come è andata a finire l’ultimo anno. Poi, se devo parlarti di ambizioni, non posso negare che il mio sogno è sempre stato quello di arrivare in Serie A e, con orgoglio, posso dire di averlo toccato con mano, grazie alle due convocazioni in prima squadra ai tempi della primavera del Cagliari”.

Hai parlato, giustamente, di Milan. Nonostante fossi ancora nel settore giovanile, avrai sicuramente stretto legami con qualcuno della prima squadra. C’è una persona, tra quelle, con cui sei rimasto particolarmente in contatto?
“Assolutamente sì. A quei tempi era arrivato, in prova, anche un certo Donnarumma, che oggi sappiamo tutti chi è diventato. Se devo citare una persona che mi ha aiutato tanto, però, non posso non fare il nome di Gigi Ragno, il mio primo mister dei portieri, attualmente parte integrante dello staff di Pioli. È stato davvero fondamentale per la mia crescita, abbiamo ancora adesso un rapporto molto stretto”.

Tra le righe hai citato anche il fallimento del Monza. Era la stagione 14/15 e, nonostante la salvezza ottenuta ai playout contro il Pordenone, sei stato costretto a salutare la squadra che ti ha visto crescere. Che ricordi hai di quei momenti? Eri ancora molto giovane, ma hai avuto lo stesso la percezione di come sarebbe andata a finire?
“A livello personale posso dirti di averla vissuta davvero male, quasi come se avessi subito un tradimento. Il Monza, almeno per quanto riguarda la Lombardia, ha sempre avuto un settore giovanile all’avanguardia, in grado di tenere testa a quelli di Inter, Milan e Atalanta. È stato davvero un peccato per come è andata a finire ma, nel cuore, porterò sempre l’impresa di aver raggiunto la salvezza sul campo”.

A Monza, in ogni caso, hai conosciuto mister Pea, allenatore di grande esperienza con un passato importante tra Sassuolo, Padova e Inter, con cui ha vinto anche un torneo di Viareggio nel 2011. Che rapporto avevi con lui?
“Sono davvero contento di poter spendere due parole nei confronti del mister, credo che sia davvero una persona fantastica. Basta pensare che, quando a Monza la maggior parte dei ragazzi aveva mollato, lui è rimasto comunque al nostro fianco, diventando un vero idolo e portando, in ogni caso, la squadra verso la salvezza. Con lui, ho sempre avuto un rapporto bellissimo, che cerchiamo di mantenere anche a distanza di anni. A livello umano, è davvero un uomo eccezionale”.

Così, nell’estate del 2015, ti trasferisci in Sardegna, nelle giovanili del Cagliari. Puoi spiegarci come è nata quella trattativa?
“Con il Cagliari è partito tutto nel mese di marzo, quando ancora non si sapeva nulla del fallimento del Monza. È stato Mario Beretta, che ai tempi veniva a vedere spesso le partite del nostro settore giovanile, a chiedermi di parlare con lui al termine di una partita, dato che, a luglio, avrebbe dovuto firmare come responsabile del settore giovanile del Cagliari. In quella chiacchierata, mi chiese se potesse piacermi l’idea di trasferirmi in Sardegna ma, quello che mi ha davvero convinto, è stato vedere il posto in cui sarei andato a vivere. Una casa stupenda, a pochi passi dal mare, che mi ha conquistato all’istante. Ricordo ancora di aver guardato i miei genitori e di aver detto, con convinzione, che sarebbe potuta arrivare anche la proposta del Barcellona, ma che ormai la mia scelta l’avevo fatta. Considera che, per trasferirmi in Sardegna, ho rifiutato le proposte di Inter e Torino”. 

A livello personale, hai qualche rammarico per come è andata quell’esperienza? Hai qualcosa da rimproverati? 
“Assolutamente no, sono soddisfatto di quello che è stato il mio percorso in Sardegna, soprattutto per aver lasciato qualcosa a livello umano. Quella con il Cagliari è un’esperienza che porterò dentro per tutta la vita, anche perché, andare a vivere da soli e lontano da casa a quell’età, è qualcosa che ti forma in maniera importante. Non posso che dire grazie per quello che ho vissuto”.

Ma, visto che hai detto di essere innamorato di Cagliari, perché hai scelto di andare via? Sentivi l’esigenza di ritagliarti, altrove, uno spazio da protagonista?
“Questa è una domanda a cui faccio fatica a rispondere. Dopo l’esperienza con la primavera, sono rimasto di loro proprietà, pur trasferendomi in prestito prima a Varese e poi a Como. Dopo aver vinto il campionato di Serie D con i lariani, però, mi sarei aspettato una qualsiasi proposta da parte del Cagliari. Il mio contratto era in scadenza, mi aspettavo un segno di riconoscimento da parte della società, e invece sono rimasto molto deluso dal loro silenzio. Considera che, appena arrivato in Sardegna, mi ero presentato dicendo di voler diventare il nuovo Daniele Conti e invece non siamo mai riusciti a trattare per raggiungere un accordo”.

Il 14 maggio 2017, finalmente, arriva la tua prima convocazione in Serie A. Il Cagliari affronta, al Sant’Elia, l’Empoli di mister Martusciello ma, in panchina, siede anche Mirko Bizzi. Che ricordi hai di quei momenti?
“È stato un momento magico, credo che la prima convocazione in Serie A non si può scordare. La partita, alla fine, l’abbiamo anche vinta, ma credo che, per me, il risultato fosse la cosa meno importante. Stavo semplicemente vivendo un sogno, a partire dall’atmosfera di uno stadio pieno fino alla possibilità di fare riscaldamento vicino a giocatori del calibro di Borriello, Bruno Alves e Padoin. È stato, senza dubbio, uno dei giorni più belli della mia vita, con la convinzione di dover lavorare duramente per poter rivivere momenti simili”. 

Nell’estate dello stesso anno, però, ti trasferisci a Varese. Come è nata la trattativa che ti ha portato a giocare in Lombardia? E, soprattutto, che sensazioni hai avuto appena sei arrivato in città?
“Ricordo di aver parlato molto con il DS Alessandro Merlin, oltre che con il DG Diego Foresti. Con Alessandro, inoltre, ho anche instaurato un ottimo rapporto, nonostante la stagione sia stata decisamente travagliata. La prima sensazione è stata quella di aver trovato, dopo Cagliari, un’altra piazza da Serie A, tanto che, nella prima intervista realizzata con la mia nuova maglia, ho affermato che un’ipotetica Serie C sarebbe stata comunque stretta alla gente di Varese. Se mi sono lasciato andare a simili dichiarazioni, però, è perché ci avevano fatto determinate promesse che, alla fine, non sono mai state mantenute”. 

A che tipo di promesse ti riferisci? In che modo ti avevano convinto a firmare?
“Semplicemente mi avevano detto che l’obiettivo sarebbe stato quello di vincere il campionato. La realtà è che, alla fine, ci sono stati messi i bastoni tra le ruote e non abbiamo potuto raggiungere la promozione. Siamo arrivati tutti con delle garanzie ben precise, le nostre ambizioni erano molto alte e la squadra, in generale, era davvero forte”.

E allora, che cosa non ha funzionato quell’anno?
“Sicuramente ci sono stati problemi a livello economico. I ragazzi, quasi tutti “padri di famiglia”, avevano la necessità di guadagnare per poter portare il pane a casa, nel senso letterale del termine. È normale che, se non ricevi soldi dopo 3 mesi, inizi anche a guardarti attorno, soprattutto i più esperti. Se tratti la gente in questo modo, è comprensibile che più di qualcuno si tiri indietro”.

Però, nonostante tutto, per te quella è stata la prima stagione da protagonista. In totale, infatti, sei riuscito a mettere insieme 30 presenze, partendo praticamente sempre da titolare. Possiamo dire che non hai fatto male quell’anno?
“Sì, vero. Non sono uno a cui piace correre, credo ci sia il giusto tempo per tutte le cose, ma speravo che quella, per me, potesse essere la stagione della svolta. In ogni caso, quella di Varese è stata un’esperienza che mi ha formato tantissimo. Lo dico sempre, una persona si responsabilizza molto di più quando deve salvarsi, altrimenti rischia di essere tutto fin troppo facile. Quell’anno, poi, ce l’abbiamo messa davvero tutta, c’era gente che giocava con gli antiinfiammatori da 2 mesi. Per quanto riguarda a livello personale, invece, non sono partito benissimo, semplicemente perché non mi trovavo bene con mister Jacolino. Aveva fatto delle dichiarazioni in conferenza stampa che non mi erano piaciute, soprattutto perchè ero un ragazzo di 17 anni alla prima esperienza in prima squadra. Nonostante tutto, però, sono sempre rimasto sul pezzo, allenandomi costantemente e con intensità. Poi, una volta arrivato Tresoldi, ho iniziato a sentire anche una certa fiducia nei miei confronti”.

Hai qualche rammarico per come è andata la tua esperienza con i biancorossi?
“Assolutamente no, se non per le prime partite. Penso che sbagliare sia umano, e anche le critiche che ho ricevuto sono state tutte costruttive, mi sono servite per crescere. Non ho nessun rammarico, posso andare in giro a testa alta, così come tutti i miei compagni. In quella stagione, abbiamo fatto fin troppo”.

Nell’estate del 2018, però, ti trasferisci a Como. Non hai mai pensato che, da parte dei tuoi vecchi tifosi, il trasferimento in azzurro potesse essere visto come un “tradimento”? O, quella degli azzurri, è stata davvero una proposta irrinunciabile?
“Considera che loro erano controllati da una società sarda che conoscevo già da tempo. Mi volevano già a gennaio, ho rinunciato solo perché ero a Varese e sapevo esattamente quali fossero le dinamiche tra le due tifoserie. Alla fine, però, visto quello che è successo con i biancorossi, non me la sono sentita di rifiutare un’altra volta una proposta così importante. Quell’anno, il Como ha fatto record su record, eravamo davvero una famiglia, con un gruppo più unito che mai. Un grazie enorme, ovviamente, va anche al direttore Ninni Corda”. 

In chiusura. Prima di trasferirti all’Ardor Lazzate, sei passato anche per Legnano. Con la società milanese, però, hai giocato appena 6 partite. Cosa non ha funzionato in quel caso?
“Semplicemente ci sono stati degli screzi con il direttore Mavilla con cui, in ogni caso, ci siamo lasciati da uomini. Ci eravamo promessi delle cose che, per diversi motivi, non siamo riusciti a mantenere, e in questi casi è normale fare un passo indietro. In ogni caso, non c’è assolutamente alcun tipo di rancore nei suoi confronti”. 

Con l’Ardor Lazzate, però, riesci a toglierti delle belle soddisfazioni. Che piani hai per il futuro?
“Ho solo parole belle per quanto riguarda quella società. Nulla da dire contro direttore, allenatore e staff tecnico. L’ho sempre detto, per me il Lazzate è l’isola felice dell’Eccellenza, sono davvero una realtà solida, con le idee ben chiare. A livello personale, però, non ti nego che spero di poter tornare presto in Serie D. Per ora non posso dirti molto di più, so che a Varese c’è una società nuova, ma il sogno è quello di provare a fare qualcosa di più bello rispetto a quanto fatto 3 anni fa. Ormai conosco la città, e la voglia di tornare, per provare a dare una mano alla squadra, è davvero molto forte”.

Gabriele Rocchi

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