Non sono solo i grandi campioni a rimanere nel cuore dei tifosi. Tante volte non è il puro e solo talento a colpire, ma la voglia di lavorare e di essere utili per la causa. È il caso di Cristiano Zanus Fortes, 146 presenze in 6 lunghi anni di Pallacanestro Varese. Zanus faceva parte di quel magico gruppo della Varese scudettata del ’99, ed è proprio lui a spiegarci cosa avevano di speciale quei ragazzi… 

Come sta Cristiano Zanus Fortes?
“Sto bene, ho smesso di giocare quattro anni fa a quarant’anni, per cui la mia è stata una carriera abbastanza lunga e sono contento. Sono riuscito a non fare troppi danni fisicamente (ride, ndr), e adesso faccio il team manager a Verona. Sto coltivando un’altra passione, che è la pratica dello Yoga, e mi piacerebbe trasportarla nel mondo della pallacanestro perché credo che possa aiutare mente e fisico. La uso per ridare al mio corpo tutto quello che gli ho chiesto negli anni di professionismo. Sono anche nel consiglio federale della federazione pallacanestro, sono rappresentante dei professionisti. Ho la mia casetta alle pendici delle colline veronesi, sono tranquillo”.

Zanus Fortes CoppaCom’è per un ex giocatore la vita da dirigente?
“Essere un giocatore ti chiede molto dal punto di vista fisico ma ti restituisce tante gratificazioni quando vai in campo. Poi, sei sotto i riflettori per quello che fai e dici, soprattutto oggi con i social media. L’altra cosa bella è che lavori solo quattro ore al giorno, poi hai la possibilità di staccare e pensare solo a riposare e a fare una vita regolare. Quando smetti di giocare invece devi cominciare ad accendere il cervello da quando ti svegli a quando vai a dormire. Ti cambia profondamente la vita anche dal punto di vista metabolico”.

Cosa ne dice della Pallacanestro Varese di oggi?
“Guarda, io ho avuto la fortuna di far parte dell’ultima grande squadra “italiana” della pallacanestro italiana. Quando quell’anno si volevano vincere le partite c’era sì Mrsic in campo, ma poi c’erano 5 italiani. Adesso – a parte pochissime squadre – le scelte vanno verso gli stranieri. Mi fa un po’ sorridere che i tifosi chiedano un grande attaccamento alla maglia a giocatori che arrivano dall’altra parte del mondo e vivono solo un anno in una società. Se una squadra come Varese prende uno straniero per non molti soldi, che succede? Se gioca bene va via a prendere più soldi, altrimenti viene tagliato e mandato via. In questo modo si cambiano 5-6 stranieri almeno a stagione”.

Quindi, le squadre cambiano pelle troppo in fretta…
“Non c’è tempo per il giocatore di attaccarsi alla maglia e per i tifosi di attaccarsi al giocatore. Se vedo delle società come Cremona e Reggio Emilia stare in alto mi fa solo piacere. È vero che gli italiani sono più dispendiosi, ma bisogna prendere giocatori italiani a pochi soldi dando loro l’opportunità di giocare in una piazza storica come Varese. Quando sono venuto io a Masnago non avevano molti soldi ma mi davano l’opportunità di diventare un giocatore in una grande squadra. Io avevo anche offerte superiori quell’anno, ma ho scelto Varese per il fascino, per l’Eurolega, per il gruppo e per il coach. È stata la scelta giusta, se crei le giuste condizioni i ragazzi italiani arrivano. Poi penso un’ultima cosa”.

Dica.
“Che la struttura che si procura i soldi per far sì che la società vada avanti dovrebbe essere slegata – se non per il contatto con il ds – da quella che è la struttura della squadra e che fa la scelte per essa. Il presidente/consorzio mi procura i soldi, ma devo essere indipendente nelle scelte, ognuno fa il suo lavoro in due strutture ben distinte. Va fatta grande chiarezza, molte volte c’è confusione”.

Apriamo l’album dei ricordi. Cosa aveva di magico lo spogliatoio del ’99?
“C’era un bellissimo gruppo di ragazzi della stessa età, con gli stessi interessi e la stessa voglia di divertirsi ma anche e soprattutto di lavorare. Perché è anche vero che ci sono altre magnifiche compagnie, ma che non vincono certo scudetti… Il cemento è la voglia di andare ad allenamento e sudare in palestra. Alla fine quando si è amici ognuno porta il suo mattoncino. Io non sono stato la punta di diamante del gruppo, ma facevo cose funzionali a quella squadra: davo un cazzotto, portavo un blocco, prendevo un rimbalzo, mi tuffavo. È stata una gioia pazzesca sapere di aver fatto parte di quel gruppo”.

Ci racconta qualcosa?
“Una delle cose più belle che ricordo sono le serate matte che facevamo: ci guardavamo negli occhi e ad un certo punto andavamo a trovare Sandrino Galleani. Gli tiravamo i sassi sulle finestre e lo svegliavamo alle tre di notte. Lui – da vero padre – ci apriva la porta e ci offriva sempre una fetta di salame. Sono i valori aggiunti che riempiono cuore e mente. Pensate se la gente lo avesse saputo: cosa avrebbe detto di noi? Invece questo è un pizzico di follia che ti fa godere anche del giocare a pallacanestro”.

Il ricordo più bello è ovviamente lo scudetto?
“Credo che per tutti sia così. Provavo delle emozioni pazzesche nel palazzetto durante le finali, sapendo di avere una chioma improbabile. Un giorno provai ad urlare senza sentire la mia voce, e mi porto ancora dietro quella sensazione. I cori dei tifosi per un’ora e mezza… semplicemente fantastico. Sono cose che rimangono dentro per sempre e riempiono di soddisfazione”.

Teniamo aperto l’album. Cosa ci dice della partita contro i San Antonio Spurs al McDonald’s Open?
“Ti racconto un altro piccolo aneddoto. Pochissimo prima di quella partita mi ero appena levato il gesso, perché mi ruppi il metacarpo contro Milano. Il dottore in condizioni normali non mi avrebbe mai fatto giocare, ma quella sfida era troppo importante, un’occasione unica. La considero come una parentesi NBA di un giocatore normale italiano. Abbiamo anche vissuto tutto il contorno: l’albergo a 5 stelle pagato con stanza singola, ad esempio. È un piccolo sogno diventato realtà”.

Siete riusciti a scambiare due parole con i giocatori di San Antonio poi?
“Quella sera siamo usciti, e ci siamo ritrovati in un locale con Mario Elie, Avery Johnson e Felton Spencer: loro hanno offerto da bere a tutti. Si vede che vivevano ad un livello superiore. È stato fantastico”.

Farà ritorno a Varese?
“Per ora ho fatto la scelta di non portare avanti la carriera da dirigente, lo faccio a Verona perché abito qui. Non credo di avere la voglia necessaria di andare in giro, ma se dovessi cambiare idea, farlo a Varese sarebbe il top. Il Poz ha dichiarato che sarebbe un sogno tornare a Varese, ed è così anche per me. Ho un rapporto particolare con Varese, se l’indirizzo della mia vita dovesse cambiare ci farei sicuramente più di un pensiero”.

 Luca Mastrorilli