52 giorni, 3 ore e 26 minuti. Tanto è durata l’avventura di Matteo Perucchini, partito dalle Canarie e arrivato ad Antigua in canoa. Un moderno Ulisse che ha coronato il suo “Sogno Atlantico” attraversando l’oceano fra mille insidie e paure. Matteo è di Leggiuno, e il 10 febbraio ha concluso – al primo posto fra i navigatori in solitaria – la Talisker Whisky Atlantic Challenge, primo italiano a buttarsi in questa impresa. 5200 chilometri remando 18 ore al giorno, contando sulla sola forza delle proprie braccia. Ci vogliono testa e muscoli. Ma soprattutto cuore, come ci ha spiegato.

Come sta ora Matteo Perucchini?
“Sto bene, sono qui ad Antigua con la mia famiglia e la mia ragazza, Rebecca. Mi sto riposando. Provo sensazioni singolari, non mi sembra quasi vero. Poter aprire il frigo e bere bevande fredde sono cose strane per me. Mentalmente e fisicamente sto recuperando in fretta. Non ho visto persone per 50 giorni, e al porto di Antigua al mio arrivo sono stato circondato. Pensa che c’erano i miei su una barchetta con Rebecca e non li ho neppure riconosciuti…”.

matteo perucchini 1Possiamo dire che il suo Sogno Atlantico si è realizzato?
“Direi che meglio di così non poteva andare. Volevo attraversare, sono dieci anni che penso a questo viaggio e lo preparo da due. Per me era solo una questione di attraversare. La vittoria fra i singolisti non era nei miei pensieri, ma alla fine è arrivata, assieme al record della gara. Non potevo chiedere di più”.

C’è soddisfazione nell’aver firmato un tempo del genere?
“Tantissima. Io prendo la traversata per me stesso perché ho sempre voluto farla, la vittoria è per chi mi ha sostenuto e creduto in me. È un tempo inaspettato e una grossa soddisfazione, ma è comunque secondaria alla attraversata”.

Qual è stato il motivo che l’ha spinta in mare?
“Dieci anni fa non mi sentivo proprio pronto a livello mentale, perché si tratta di una sfida sia fisica che psicologica. Poi, due anni fa ero nella posizione giusta sia a livello personale che a livello di lavoro. È stata una combinazione di fattori che mi ha spinto a provarci, perché se non l’avessi fatto ora sarebbe rimasto solo un bel sogno. Ero via per lavoro a Singapore e ho deciso che era ora di cambiare”.

matteo perucchini 4Com’è stata la preparazione, soprattutto a livello mentale?
“È stata lunga e difficile: ho collaborato con molte persone che mi hanno aiutato. A livello mentale ho lavorato con una ditta che si chiama HeadSpace. Ho fatto molto yoga e meditazione. La cosa buona è che sono sessioni brevi, quindi le posso fare anche sulla barca. Pur tenendo ritmi elevatissimi di remata – 18 ore al giorno – riesci comunque a ritagliarti piccoli spazi per calmarti e trovare il tuo equilibrio mentale”.

Cosa è successo quando l’ha detto ai suoi genitori?
“All’inizio non ci credevano molto, pensavano fosse una cosa passeggera. Pian piano però diventa una realtà. Quando ho preso la barca è diventato tutto concreto di colpo. Loro mi hanno aiutato e supportato moltissimo. Quando uno decide di fare cose di questo tipo, la cosa migliore è aiutarlo. Più ti prepari meglio è, e loro dopo lo shock iniziale sono sempre stati al mio fianco”.

C’è anche un motivo legato ad una raccolta fondi, giusto?
“Certo. Innanzitutto, chi vince questa gara non riceve premi di nessun tipo. Lo si fa soltanto per la voglia di avventura. Per questo, tutti i team si associano almeno ad una onlus, e negli anni si sono raccolti moltissimi soldi. Io ho scelto l’Associazione italiana di lotta al Neuroblastoma perché attraverso il mio lavoro ho conosciuto molti malati di questa malattia e la ricerca è essenziale. Nel Regno Unito ho deciso per la Cardiac Risk in the Young: loro lavorano e supportano ragazzi – e le loro famiglie – che sono affetti da problemi genetici a livello cardiaco. Ho deciso per loro perché i cugini e lo zio della mia ragazza sono affetti da questi problemi”.

Perché secondo lei una persona dovrebbe mettersi in gioco così duramente?
Bella domanda. Più di tanto non ci ho mai pensato, probabilmente non ho mai realizzato l’enormità del progetto. L’ho suddiviso in tanti piccoli traguardi: ogni giorno c’era qualcosa da fare e passo passo mi avvicinavo prima alla partenza e poi all’arrivo. Mi sembra strano che quando ho finito la traversata c’erano persone che mi hanno accolto come un campione o chiamato ‘eroe’; non mi sento molto a mio agio. Più che mettersi in gioco, è una questione di sogni: se c’è qualcosa che vuoi fare e hai questo desiderio dentro di te, tutto ciò dimostra che esistono pochi ostacoli. Non sono diverso da nessun altro, è solo una cosa che volevo fare da tanto e con concentrazione e voglia ce l’ho fatta. Si può fare un po’ di tutto, l’importante è iniziare.

matteo perucchini 3Cosa le ha dato questo viaggio dal punto di vista umano?
“Quando ero in mare, i primi giorni avevo moltissime preoccupazioni legate alla vita sulla terraferma, associate al lato più materiale delle cose. Man mano i pensieri si sono rivolti solo alla mia famiglia e ai miei aspetti, e direi che sotto il lato umano il mio viaggio mi ha aiutato a capire cose che si sanno ma che ogni tanto si danno per scontate. Ad esempio il valore delle relazioni, degli amici e della famiglia, messi a confronto con le altre cose come i soldi e il lavoro”.

C’è mai stato un momento in cui ha avuto paura e ha pensato di non farcela?
“La paura, ogni giorno. Ho convissuto con lei. Ci sono state un paio di tempeste che mi hanno colpito di notte che hanno lasciato il segno. Dopo quelle, ogni volta che scendeva il sole era difficile non avere paura. Devi lottare con una voce dentro di te che dice che devi tornare in cabina. Lì la paura c’è. Una notte – io andavo a letto verso le 2 – mi sono svegliato alle 4 circa perché c’era una violenta tempesta. Sono uscito a controllare e alle 5 ho perso il controllo dell’imbarcazione: ci ho messo sei ore a riprenderlo per tornare a remare. La barca si è capovolta quattro volte, si è rotto un remo e ho perso parte dell’equipaggiamento, come la giacca da mare. Questi sono momenti duri dove è impossibile non avere paura. Sul lasciare tutto e mollare il discorso è diverso”.

Cioè?
“Sai che anche nella tempesta più brutta se lanci il mayday ci vogliono un paio di giorni prima che qualcuno ti venga a prendere. Non ne vale la pena. Sai che la cosa migliore è continuare a remare e andare a ovest: non ci sono alternative, soprattutto dopo le prime settimane. Se ti fai venire a prendere, devi renderti conto che stai buttando via mesi e anni di allenamento e tempo donato. Quando non mi sentivo al meglio, ad ogni remata cercavo di pensare una ad una a tutte le persone che mi hanno aiutato, per cercare di rimanere motivato”.

E ora, che farà Matteo da grande?
“Adesso direi che prima di tutto bisognerà concentrarsi sulla famiglia e sul futuro, anche con Rebecca, e sul lavoro. La mia fortuna è stata che 18 mesi fa ho aperto una ditta con altri due soci che sono stati fantastici: mi hanno permesso di mollare tutto e coronare il mio sogno. Ora devo tornare in ufficio e ripagarli. Mi aspetta una vita normale. In mare pensavo spesso alla normalità: comprare il giornale la domenica e sedermi col caffè a leggerlo, per esempio. Sono piccole cose che mi sono mancate. A dire il vero ho tanti altri piccoli sogni, ma molto più alla portata di questo…”.

Luca Mastrorilli
(foto da www.sognoatlantico.com)