Amici, il condizionale è d’obbligo. La Varese che vorrei. E’ come un menu, le ricette sono molte, ognuno ha le proprie proposte, indica soluzioni strutturali, prospetta rimedi a ipotetici o conclamati scempi. Ebbene, io ebbi la fortuna, durante i Mondiali di Ciclismo del 2008, svoltisi nella nostra provincia, di sorvolare in elicottero la città. Stupore. Meraviglia. Incredulità. Un inferno verde. Un oceano di parchi, piante, essenze arboree, costruzioni perfettamente integrate nel territorio, strade, stradine, country road, agriturismi, fattorie. Ci fosse stato Pat Metheny accanto a me, avrebbe certamente composto una suite celebrativa. Ciò che vedevo era Musica, Armonia, pianoforte e chitarra, suoni della natura, percussioni, frenesia della città. E automobili. Una valanga. Tornato con i piedi per terra, ripensando con l’occhio della mente al mirabile spettacolo al quale avevo da poco assistito, mi ritenni davvero fortunato ad essere nato, vivere e far vivere i miei figli in un luogo cosi. Io non la vorrei, Varese. Io ce l’ho. Abbiamo ricchezze che altri non possiedono, abbiamo i colori tenui, le sfumature forti, accese. Abbiamo l’espressività, la vivacità, l’efficacia dei nostri paesi, delle contrade. Abbiamo lo sport. Un territorio che si presta perfettamente allo sviluppo di attività sportive aggreganti. Dal lago al monte, un gioiello. Sarebbe perfetto, una sorta di Terra di Mezzo. Ma come sempre accade e seguendo il vecchio adagio che vuole l’erba del vicino sempre più verde, spesso percepiamo la realtà fuori quadro, siamo certi di camminare su macerie, ci strappiamo le vesti per la cementificazione selvaggia. Invece di incanalare le energie per celebrare ed acquisire credibilità verso un territorio che ci è amico, ne esaltiamo le nefandezze quasi fossimo un ombelico sporco del mondo. La Varese che vorrei? Quella che c’è, imperfetta, poco svizzera, magari arruffona. Piuttosto cambierei una buona parte di varesini, raddrizzerei la spocchia intellettuale che troppo spesso emerge dalle critiche e dai dibattiti, correggerei la percezione dell’idea di territorio che non è “io e il mio giardino di casa”, ma “io, il mio giardino di casa ed il rispetto che tutti devono averne”. Varese è accogliente, ma non si può pensare di contrastare un’iniziativa artistica, ricreativa o sportiva semplicemente perché si svolge a pochi passi da casa propria. Varese è preda delle automobili, ne è invasa, è una battaglia persa. Si utilizzano come un telefono cellulare, praticamente sempre. Per percorrere cento metri, così come per esigenze di lavoro. Sono i cavalli del nostro presente. Vogliono i cavalli, non vogliono i recinti. Vogliono le automobili, non vogliono i parcheggi. All’uscita dei ragazzi dalle scuole è un autentico far west, vale tutto, non esiste regola, i marciapiedi sono corsie preferenziali, le quattro frecce illuminano a giorno. In quel caso nessuno protesta, si incatena, si arrampica. Poi, gli stessi banditi a quattro ruote, promuovono crociate contro i ciclisti in doppia fila e si danno fuoco come i bonzi per l’ipotetico disastro provocato dalla proposta di nuovi parcheggi. La Varese che vorrei? Cittadini col senso della misura, che si interrogassero, ogni tanto, su ciò che accade nel vasto mondo, che si fermassero a considerare quanto, in fondo, siamo fortunati a vivere, crescere e moltiplicarci nella nostra splendida terra. La Varese che vorrei è una città di confronto intelligente, di contributi semplici ma efficaci, di visioni anche infantili. E proprio per questo, più sostenibili.

Marco Caccianiga