“Sono un Capo, mi sento un Capo, lo sono sempre stato”.
Un adagio piuttosto in voga dice che per arrivare ad alto livello nello sport, per emergere, per elevarti dal branco devi avere non solo qualità tecniche, fisiche, atletiche, talento, ma anche un pizzico di sano egoismo accompagnato, sempre ma sempre, da un’alta considerazione di te stesso. Le parole, ma anche i concetti con cui Ebi Ere intervalla la nostra chiacchierata (un grande e doveroso ringraziamento a Chiara Martelli che ha gentilmente collaborato), fanno subito intendere che l’adagio in questione corrisponde a verità e la competizione sportiva non è quasi mai territorio adatto a personaggi timidi, titubanti, cronicamente indecisi. Chiacchierata che si dipana secondo un gentleman agreement: non si parla dello scorso anno perché l’argomento è ancora doloroso e perché il motto di Ebi è chiaro: la lotta per la vita, lo sport e tutto il resto, è solo temporanea. Quindi…
Ebi Ere, carattere trascinante, non a caso capitano della Cimberio e capo dello spogliatoio biancorosso, conferma tutto. Parla ad alta voce, Ebi, ed ho l’impressione che nel rispondere alle domande voglia trasmettere due stati d’animo: grande sicurezza ed un giusto mix tra serietà, partecipazione e disincanto.
“Sto facendo un lavoro bello e divertente, certamente da privilegiati ma -dice Ere-, cerco di non dimenticare mai che l’aspetto ludico, pur importante, è fondamentale soprattutto per il pubblico che paga per vederci. Noi, ogni giorno, andiamo in palestra per fare al meglio il nostro lavoro ed io spendo tutto quello che ho dentro per raggiungere insieme ai miei compagni il miglior risultato possibile che, per me, è sempre e solo uno: vincere. Vincere, infatti, è la mia ossessione e, anche, l’aspetto che più condiziona il mio carattere perché non sopporto l’idea di perdere, nemmeno quando gioco a carte”.
Hai parlato di pubblico e tu, che di folle ne hai viste diverse a tutte le latitudini, sei giustamente considerato un esperto. Quali, ad esempio, le differenze tra la tifoseria italiana e quella degli altri paesi in cui hai giocato?
“Devo dirti una cosa: il pubblico italiano è unico, nel senso che non ha eguali nel mondo ed è diverso da tutti quelli che ho avuto modo di vedere. In Australia i tifosi hanno comportamento totalmente differenti da quelli italiani e la pallacanestro, come anche gli altri sport, rappresenta solo un un gradevole passatempo. Le persone vanno allo stadio, guardano la partita, si divertono e tornano a casa felici per aver visto un bello spettacolo. Invece, per quanto ho potuto vedere, in Italia, oltre all’enorme importanza che circonda il risultato, c’è un legame quasi sentimentale con la squadra per cui si fa il tifo. Mi capita di vedere bambini per i quali la Cimberio costituisce tutto il loro mondo: vengono a fare il tifo alle partite, fanno la collezione di autografi e foto con i giocatori, possiedono tutti i gadget possibili e immaginabili e sognano di poter giocare un giorno nella loro squadra del cuore. Tutto ciò contribuisce a creare un clima affettuoso ed un bellissimo senso di appartenenza intorno alla squadra. Sentimenti che oggettivamente, per la mia esperienza, non ho trovato da altre parti. Negli USA, per esempio, è totalmente diverso: il sogno di ogni bambino che inizia a giocare a basket è quello di poter giocare un giorno in NBA. Non importa in quale delle 32 squadre, ciò che conta è arrivarci”.
E se dovessi fare un confronto tra la tifoseria di Varese e quella dei tuoi Oklahoma Sooners?
“Anche in questo caso è impossibile fare paragoni perché clima e atmosfere sono molto differenti: i palazzi dello sport in Italia possono ospitare tra i 5 e i 7-8 mila spettatori, mentre gli stadi dei college ne ospitano dai 15 ai 20mila. Il chiasso, il rumore, talvolta il caos provocato da un numero di appassionati così elevato tocca livelli folli, soprattutto quando gli spettatori sono per la maggior parte studenti che per tre ore urlano, suonano, ballano e cantano a squarciagola”.
Cosa pensi invece dei cori spesso offensivi contro gli avversari?
“Sinceramente non ho idea di cosa dicano. O meglio: quando partono i cori, riconosco i nomi degli avversari e capisco che non si tratta esattamente di lodi o complimenti, ma dato che non parlo l’italiano, non sempre capisco quello che i cori vogliono esprimere. In generale, non ci do troppo peso, ma una cosa è sicura: l’abitudine di offendere gli avversari, spesso con insulti pesanti, non mi piace per niente. Non la trovo giusta né, ovviamente, rispettosa né per chi la subisce, né per il resto del pubblico che, forse, preferirebbe fosse usata l’ironia. Ecco, l’ironia: quella sì che colpisce, oltre ad essere infinitamente più intelligente”.
Quando gli faccio notare che non è vero che non capisce l’italiano e che, come gran parte dei suoi connazionali che ho conosciuto, non lo parla per pigrizia e per un frainteso e sbagliato senso di superiorità, Ebi un po’ s’arrabbia e reagisce con impeto. Tuttavia, a parte questo “pippotto”, visto che sei in Italia ormai da 3 anni, non sarebbe il caso di impararlo?
“No, non credo che imparerò l’italiano perché -spiega in tono leggermente ‘mosso’ Ebi-, non ne ho la necessità. Pur vivendo in Italia per tutta la stagione, trascorro la maggior parte del tempo con la mia famiglia, nella quale, ovviamente, parliamo in inglese. Probabilmente se fossi qui da solo o avessi una fidanzata italiana le cose cambierebbero e sarei costretto a imparare la vostra lingua per comunicare con gli altri. Uso solo l’italiano che mi è utile che, sostanzialmente, è quello del basket. Quando l’allenatore mi parla in italiano lo devo capire per forza. Se mi chiede ‘stai sul fondo, blocca, taglia, vai a rimbalzo’ devo comprendere ciò che dice ed eseguire i suoi ordini senza creare problemi a lui o al resto della squadra. Poi, in definitiva, non sono proprio così scarso nell’uso dell’italiano. Per esempio, le poche volte che usciamo e andiamo al ristorante non mi trovo in difficoltà. Riesco a leggere il menù tranquillamente e a capire quello che c’è scritto. Ora, ad esempio, so cosa è una bistecca!”
Ti dirò: se il lessico da “chef” si riduce ad ordinare una bistecca, non ci siamo. Dai, non dirmi che avendo giocato a Caserta non sai cosa sono i panzerotti oppure i babà.
“Panzewhat? Panseroti? Mai sentiti. Cosa sono? Sono così famosi? Non li ho mai visti su un menù e, ti giuro, non ho proprio idea di cosa siano. Comunque, ti accontento: la prossima volta che andrò al ristorante chiederò se è possibile averli e li ordinerò. Naturalmente -ridacchia Ebi-, col mio fluente italiano”.
Prima hai fatto qualche accenno alla tua famiglia: vuoi raccontarmi qualcosa a riguardo?
“Ho una moglie favolosa (devo ringraziare i mie amici se ora sto con lei) che mi ha dato quattro splendidi figli, 3 femmine e un maschio, Ebi Junior. Ha solo 7 mesi ma è lui che comanda, a casa lo chiamiamo ‘The Chief’: urla giorno e notte finché riesce ad ottenere tutto ciò che vuole. La sua nascita ha rappresentato il momento più felice della mia vita perché, penso sia normale, ogni uomo desidera un figlio maschio nel quale potersi rivedere e in grado di portare avanti il nome. In ogni caso la famiglia racchiude l’obiettivo fondante della mia vita: vedere crescere bene i miei figli, lavorare duro insieme a loro perché abbiano successo nella vita e soprattutto aiutarli a non ripetere il mio stesso errore: prendere poco seriamente la scuola”.
Parliamo di nuovo di pallacanestro, del momento che state vivendo e del big-match contro Sassari
“Siamo reduci dalla partita-no di Avellino, nella quale abbiamo giocato abbastanza male, ma la vera Varese è quella vista a Reggio Emilia, in casa con Milano e a Venezia. Siamo una squadra decisamente migliorata, ma ulteriormente migliorabile sui due lati del campo e nella gestione delle situazioni. Detto questo c’è in tutti noi una forte consapevolezza: per battere i sardi, che oltre ad essere davvero forti, sono annunciati in fantastica forma mentale e tecnica, bisognerà sfoderare la migliore prestazione dell’anno. Però, con l’aiuto del pubblico di Masnago e giocando insieme da squadra vera possiamo farcela!”

Massimo Turconi
(foto di Simone Raso)