L’epica gialloverde illumina ed alimenta i sogni di ogni “torcedor brasileiro” attraverso le gesta ed i nomi di “craque” genuini, idolatrati, imitati dai giovani calciatori di tutto il mondo. Più difficile le luci della ribalta se sei allenatore,  il tecnico di 11 fuoriclasse che vanno in campo da soli.  Ebbene, Sebastiao Lazaroni, commissario tecnico della nazionale brasiliana per i Mondiali del 1990, riuscì nell’impresa di essere ricordato più dei suoi stessi giocatori. L’Italia organizzò quel mondiale con il chiaro intento di vincerlo e, naturalmente, lo perse.
La Seleçao verdeoro giunse nella terra di Leonardo Da Vinci con l’investitura della Copa America conquistata un anno prima (goal di Romario e uruguagi a casa…), con un “time” ben amalgamato e con la concreta speranza di portare a casa il quarto titolo mondiale. Una nuova generazione di grandi giocatori, da Jorginho a Branco, da Dunga Alemao, passando per Careca e Muller, avevano il compito di ridare lustro ad una scuola calcistica in panne dal 1974. La torcida era molto scettica nei confronti di Sebastiao Lazaroni che proponeva uno schema di gioca nuovo per il Brasile, con un libero e due ali, ma la squadra era ben equilibrata e tutto faceva pensare che i brasiliani avrebbero disputato un grande mondiale. Naturalmente ne ero convinto anche io (beh, in realtà io non faccio testo, ne sono sempre convinto…) ed ero felice di poter vedere dal vivo i miei beniamini. Chiara la Santa, già testimone dei miei deliri brasiliani in occasione del viaggio di nozze, accolse benevolmente l’idea di andare a Torino ad assistere alla seconda partita della Seleçao contro la Costarica, dopo il faticoso (2-1 doppietta di Careca) esordio contro la Svezia. Ci sistemammo in curva con la torcida – samba, percussioni, bandiere, canti, mulatas, caboclos, uno spettacolo-, ma il Brasile giocò addiritura peggio della prima partita e ci salvò solo un’autorete del costaricano Monteiro. Vincemmo anche contro la Scozia quattro giorni dopo, ma la squadra non girava, i meccanismi tattici sembravano la brutta copia di quelli della Copa America, i centrocampisti non riuscivano ad innescare gli artiglieri Muller e Careca, le fasce di Jorginho e Branco erano sempre presidiate da avversari.
In queste precarie condizioni la Seleçao si accingeva, il 24 giugno del 1990, ad affrontare, negli ottavi di finale, il Maligno. La Notte. L’Ade. Lei, l’Argentina. Quel giorno mi trovavo a Chiesa Valmalenco, impegnato in un Camp estivo con i ragazzi della Polisportiva Robur et Fides. Tutti erano a conoscenza della mia passione per il Brasile, ma soprattutto, quanto rappresentasse- e rappresenta tutt’ora- per me, un match contro l’Argentina. Non è una semplice partita di Calcio, è l’eterna lotta contro il nemico di sempre, il fioretto contro la spada, l’eleganza sopraffina contro la forza bruta, Jorge Amado contro il Grande Fratello. Accetto la sconfitta da chiunque. Non contro di loro. I ragazzi lo percepivano (io vivo in simbiosi con la Seleçao…) ed infatti in campo emerse il miglior Brasile di quei mondiali, meccanismi difensivi sapientemente orchestrati da Mauro Galvao, Alemao e Dunga con le chiavi del centro campo, Careca a spaventare gli avversari in attacco. Ogni volta che vedo il Brasile dominare l’Argentina – molte volte, credetemi…- provo un piacere fisico, un brivido caldo che mi percorre la spina dorsale. E’ il Samba che schiaccia l’inutile Tango, è il sapore, il profumo, il ritmo, l’allegria del Paese del pau-brasil che soverchia la nazione che ne è priva. Cresce il mio Brasile e cresce il mio incitamento davanti al teleschermo. Ci siamo fratelli! E’ maturo, il goal è a portata di mano! Risuonino gli atabaques nei terreiros, giunga Oxum dalle terre del Niger a festeggiare e cavalcare le figlie di santo! Apnea. Ricardo Rogerio De Brito detto Alemao commette un errore, un solo stupido errore di una partita perfetta. Lascia la marcatura su Maradona che effettua il lancio, Caniggia si defila ed infila Taffarel. Silenzio assordante. Gli dei non possono umiliarmi per la terza volta, persino ad Eracle fu concessa una tregua. Inesorabili le lancette corrono (vi prego, lasciatemi morire, dite a Chiara che l’amo). 88 minuto. Valdo Candido Filho detto Valdo opera un traversone che coglie in controtempo il marcatore di Luiz Antonio Correa Da Costa detto Muller il quale incorna a colpo sicuro. Perché? Perché, traditore, a fine partita andasti placido e sereno a mangiare la pizza con gli amici dopo aver prostrato un intero Paese? Come potesti tu, figlio della terra del Samba e del Pandeiro, sangue di Antonio Conselheiro che mori’ a Canudos per la libertà, tu che calpestasti gli stessi prati di Gerson De Oliveira Nunes detto Gerson, di Eduardo Gonçalves De Andrade detto Tostao, come potesti riempirti la pancia dopo aver fallito un goal che neppure Omero bendato avrebbe mancato? E di nuovo le lacrime solcano il mio volto, come acido mi incidono le carni. Distrutto. Ed in curva, come un epitaffio lugubre, compare uno striscione “Se Lazaroni è o tecnico, eu sou o’ Papa”.

Marco Caccianiga