È arrivato a Varese a dicembre e su di lui c’erano grandi aspettative: Dominique Johnson ci ha messo un po’ a trovare continuità di rendimento, ma quando ci è riuscito ha incominciato a distruggere gli avversari a suon di canestri impossibili. Nella trasferta di Montichiari ha raggiunto il livello più alto mostrato fino ad ora in Italia: 30 punti (22 nel secondo tempo) con 8/14 dall’arco. Le spettacolari triple dal palleggio infilate nell’ultima frazione di gioco hanno fermato la rimonta bresciana. Nelle ultime quattro gare Johnson ha tenuto 21.5 punti di media (44.1% da tre) ed è salito al quinto posto nella classifica dei migliori marcatori del campionato.

Quali sono state le chiavi del cambio di rendimento di squadra visto nell’ultimo mese?
«Le nostre valutazioni su ciò che dovevamo fare sono cambiate dopo il tonfo di Brindisi. Abbiamo avuto quell’amichevole durante la pausa che ci ha aiutato a resettare tutto, a cambiare il nostro atteggiamento e rendimento e a presentarci il più possibile pronti per la seconda parte di stagione».

DOMINIQUE JOHNSON09Cosa scatta nella mente di un tiratore quando, come nella trasferta di Brescia, i tiri non smettono di entrare?
«Penso che la spiegazione sia riassunta perfettamente dalla frase che Chris Eyenga mi ha detto a fine partita: era come se per me quella sera il canestro fosse largo il doppio. È esattamente ciò che succede in quei momenti per un tiratore. Però l’unica cosa che conta è che quella striscia di canestri abbia aiutato la squadra ad ottenere la vittoria, non ci sono altri aspetti importanti».

Come ti sei trovato con il pubblico e con la città di Varese?
«Sto vivendo con entusiasmo la mia esperienzaqui, è una città che mi ha accolto bene e non sto avendo alcun problema. I tifosi sono molto appassionati, basta vedere quello che è successo nell’ultima partita in casa quando ho messo la tripla finale e il pubblico è letteralmente esploso. È facile in questa città rendersi conto del supporto che c’è nei confronti della squadra, per cui noi dal canto nostro cerchiamo sempre di ricambiarlo mettendo in campo un buono sforzo collettivo e cercando la vittoria».

Questione soprannome: quale preferisci?
«Il mio soprannome preferito è D.J., con le iniziali di nome e cognome. Qui però mi chiamano ogni tanto Dom e ogni tanto ‘Nique. In fondo il mio nome di battesimo è Dominique proprio per Dominique Wilkins [era il giocatore preferito del cugino di Johnson, ndr], quindi non posso che accettare che ‘Nique sia il mio soprannome ufficiale in Europa!».

Ti abbiamo visto spesso reagire con passione ai canestri o alle giocate difensive. Il linguaggio del corpo è parte integrante del tuo gioco?
«Il basket è uno sport fatto di emozioni. Quando cresci giocando a pallacanestro e ami così tanto questo sport, non puoi nascondere le emozioni che provi sul campo. Oltretutto esultare può essere una parte importante nel rapporto con il pubblico: quando segni in trasferta e fai stare in silenzio i tifosi di casa o quando segni nel tuo Palazzetto e il pubblico esplode per te, ti senti bene».

Non è comune vedere un giocatore che arriva al professionismo partendo dalla Division II. Non aver giocato in NCAA è un rimpianto?
«Non lo vedo come un rammarico, è semplicemente la mia storia. Mi permette in qualche modo di essere fonte di ispirazione: ricevo spesso messaggi da ragazzi della Division II e della Division III che mi chiedono quali sono i passi da compiere per arrivare a giocare da professionisti partendo da lì. Io penso che le chiavi siano lavorare sempre duramente, creare relazioni con le persone e non tagliare mai i ponti con i contatti che hai. Tutto il resto dipende da quello che riesci a fare sul campo».

Filippo Antonelli