Millenovecentottantadue. Una data tragica, una Seleçao irripetibile odiata dal Destino, un solo volto, una maschera di terrore, un Re decapitato, Arthur Antunes Coimbra, dai terrestri ribattezzato Zico. Idolo assoluto in patria, miglior giocatore brasiliano dopo l’era Pelè, miglior “artilheiro” del Flamengo (508 goals in 731 partite), venerato anche in Italia con la maglia dell’Udinese. Il Mondiale in terra iberica inizia col botto per i colori verdeoro,  superate agevolmente Urss, Scozia (segnalo il calcio di punizione più bello della Storia del Calcio. Zico, il dominio, il Signore del Tempo e delle Traiettorie) e Nuova Zelanda, umiliata la banda Bassotti del nano deforme.
Il 5 luglio si prepara il vernissage contro l’Italia di Bearzot. Quel giorno sono in viaggio, destinazione Sardegna, con amici di una vita, loro azzurri, io, naturalmente, DNA verdeamarelo. Raggiungiamo Carloforte, sull’Isola di San Pietro, giusto in tempo per assistere al primo goal di Paolo Rossi, beffardo, inaspettato. Provo una strana sensazione, ho un brutto presentimento, ci basterebbe il pari, ma so che quel Brasile non lo accetterebbe mai. Ed infatti, a conferma dei miei timori, dopo il goal del Dottor Socrates, la disattenzione e Waldir Peres ci costano il raddoppio di Rossi. L’esaltazione dei miei amici è al top, sono bersaglio di ogni sorta di insulti e sberleffi. Taccio. Non reagisco. Salivazione azzerata. Extrasistole. Ma ci pensa l’ottavo Re di Roma, Paulo Roberto Falcao, a regalarmi un capolavoro. Zoff impotente, è il pareggio, 2-2. Bene, ragazzi, a posto cosi, credetemi, oggi non è giornata, inutile sfidare gli Dei, il pari è accettabile e dignitoso, fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza. Non mi ascoltano. Il Brasile preme, attacca, il segno X non è contemplato nel codice genetico dei fuoriclasse, gli azzurri non vedono palla, Zico è martoriato dal mezzadro Gentile che gli strappa la maglia, profana la Sindone! Incantano, si autoincensano, novelli Narciso del rettangolo di gioco. Un corto circuito. Buio. E l’incubo. Ancora lui, l’incarnazione di Ghiggia, una malaria, una febbre gialla, il signor Rossi ci punisce. Italiani in delirio. Il mio volto è una maschera di orrore. Non è possibile. C’è Sua Maestà Zico, non possiamo perdere. Un minuto alla fine, calcio d’angolo di Falcao, Paulo Isidoro colpisce di testa, preciso, pulito, da manuale, da raccontare ai nipotini, una bella storia prima di addormentarsi. Mi avvinghio alla sedia. La pressione schizza, potrei gonfiare le gomme di un intero parcheggio di auto. Un urlo mi muore in gola. Dino Zoff, colui il quale prese un goal da distanza siderale da un olandese anni prima, vola, spinto dal demonio e devia la sfera. L’orrendo manufatto rotondo, mai cosi brutto ai miei occhi, danza a pochi centimetri dalla linea, si fa beffe degli eroi in giallo e ritorna , placido, tra le braccia del carnefice portiere azzurro.
E’ la fine. Zico è sconfitto, il Brasile è attonito e Marco Caccianiga è svenuto. Paolo Rossi ha trafitto il gigante, ha spento la luce.
Ad anni di distanza da quella partita, scriverà un libro dal titolo HO FATTO PIANGERE IL BRASILE. Piuttosto che leggerlo mi faccio trapanare l’incisivo da sveglio dal dentista del Maratoneta… A casa prima del previsto. Inciampa la marcia trionfale della Legione calcistica più bella di ogni tempo, ictus temporale nella corsa alla gloria di Sua Maestà Zico. O Galinho, al fischio finale, crollerà al suolo, sgozzato, trafitto al tallone da un Paride qualunque. Con la Seleçao vinse un solo trofeo nel 1976, il Torneo del Bicentenario dell’Indipendenza degli Stati Uniti battendo 4-1 in finale l’Italia. Rimane, comunque, un faro. Con Manè Garrincha e Pelè è a guardia dei miei sogni. Un campione, Zico. Un fuoriclasse. Un esteta. Un virtuoso. Le sue maglie dell’Udinese e del Flamengo sono gelosamente custodite nel caveau di casa mia, reliquie che ci proteggono, frammenti di Storia del Calcio.

Marco Caccianiga